Che fare dopo il «no»?

editoriale

Che fare dopo il «no»? È questo l’interrogativo che anima il dibattito politico all’indomani della chiara affermazione – il 59,1 per cento con un’affluenza del 65,5 per cento – del fronte avverso alla riforma costituzionale nella consultazione dello scorso 4 dicembre.

Se appare chiaro chi abbia perso la partita del 4 dicembre, ovvero Matteo Renzi, che ha subito annunciato le sue dimissioni dalla guida dell’esecutivo, non lo è altrettanto chi sia il «primo» tra i vincitori.

Il fronte del «no» è composto da varie anime tra loro inconciliabili, che già la stessa notte della vittoria referendaria hanno messo in evidenza l’impossibilità di una strategia comune per quanto riguarda la nuova legge elettorale e le ipotesi di governo.

Spetterà al presidente Mattarella cercare di sciogliere i nodi di una complessa fase politica.

Matteo Renzi, pur essendo caduto nell’errore madornale di personalizzare e politicizzare il referendum, se troverà la forza per reagire alla sconfitta potrà comunque ripartire dal suo 40,9 per cento, certamente insufficiente per far vincere il «sì» ma in grado di costituire un capitale politico non trascurabile per una futura partita elettorale.

Oltre al netto risultato finale, sul quale oltre al merito della riforma ha pesato anche il giudizio politico sul governo Renzi, è doveroso riflettere sulla campagna referendaria.

Il clima politico generale è apparso assolutamente sopra le righe, la polemica strumentale e spesso priva di qualsivoglia riferimento oggettivo ai temi costituzionali ha avuto la meglio, e ciò che è emerso di più è stata la cultura del «nemico» e del gettare fango addosso agli avversari senza alcun ritegno.

Per il cittadino elettore non è stato affatto semplice, in questo contesto, riuscire a cogliere in modo chiaro le diverse posizioni in campo e il merito reale delle questioni. Se queste sono state le premesse di una campagna referendaria, cosa potrà accadere nel cammino verso le elezioni politiche?

Con una politica solo «urlata» non si va da nessuna parte e diventa impossibile ascoltare la realtà, che è quella dei problemi concreti dei cittadini.

Appare urgente recuperare una lezione di «buona politica» di una figura del passato: Aldo Moro.

Dal grande statista democristiano la classe politica dovrebbe prendere due elementi tipici della sua azione: la capacità di unire e l’interesse per i giovani.

Moro, con un dialogo paziente e costruttivo, riuscì a portare gruppi politici avversi a condividere alcuni progetti comuni nell’interesse del Paese. Difficilmente l’Italia potrà continuare positivamente il suo cammino se rimane legata alla logica dello scontro perenne e strumentale. La ricerca del bene comune, la condivisione chiara delle regole del gioco, il rispetto per le persone devono essere un patrimonio di tutti.

Lo sforzo di Moro fu poi sempre quello di ascoltare con attenzione la realtà giovanile. Un dato certamente positivo della campagna referendaria è stato quello del coinvolgimento di tanti giovani, in molti casi alla loro prima esperienza politica. È necessario proporre subito a questi giovani degli spazi reali di partecipazione attiva all’interno di tutti gli schieramenti.

Proprio il riferimento alle nuove generazioni può offrire alla politica una rinnovata attenzione alla società e una capacità concreta di costruire il futuro. È una sfida che il mondo politico nel suo insieme deve provare a vincere.

Roberto Piredda

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