Da 10 anni vivo la vita come un grande dono Francesco Abate racconta l'esperienza di trapiantato

da 10 anni«Dal 2008, data del mio trapianto, vivo la vita come un grande dono. Quando entrai nella lista trapianti, i medici mi avevano dato sei mesi di vita: la mia vita era terminata, la mia esistenza era giunta al capolinea, dopo anni e anni di malattia, dal 1966. Ad oggi ho guadagnato altri dieci anni di vita e non posso che considerare il trapianto come un dono grandissimo».

Parola di Francesco Abate, giornalista e scrittore cagliaritano, reduce dalla sua ultima fatica letteraria, «Torpedone Trapiantati».

Un libro nel quale si uniscono umanità, amore e convivialità, ben conditi con una grande dose di ironia, per far passare messaggi importanti con un sorriso e qualche lacrima nel ricordo di chi non c’è più.

«Racconto – dice Abate – sempre storie vere, perché il mio lavoro di narratore risente molto della mia professione di cronista». «Cosa fa un cronista? – si chiede. Osserva la realtà che lo circonda e ne racconta gli aspetti più importanti, più significativi. La stessa cosa mi piace farla in letteratura. Ho la possibilità di osservare le vite degli altri dentro e fuori dagli ospedali, la speranza, l’attesa, il ritorno. La malattia mi ha regalato un osservatorio privilegiato. Uno dovrebbe maledire tutto il suo percorso da malato, eppure all’interno di questo percorso ho trovato una bella chiave, che è quella di raccontarci».

Il libro di Abate ruota attorno alla gita associativa a Bosa a «Sos Regnos Altos» dell’Associazione sarda trapiantati «Prometeo», diventata, negli ultimi dieci anni, una famiglia.

«Noi – prosegue il giornalista – ci riteniamo dei fratelli e delle sorelle che hanno condiviso un cammino comune. Ci siamo resi conto che come ci capiamo noi non ci può capire nessun altro e che la nostra esperienza ci abbia creato un solco comune che percorriamo. L’ha creato in noi, nelle nostre famiglie che ovviamente si ritrovano nei problemi, nelle gioie e dei dolori. Quindi raccontare loro significava raccontare questo cammino di vita che stiamo facendo insieme. Loro si sentono rappresentati e sono orgogliosi di questa rappresentazione, rispettosa, che ho cercato di fare, pur prendendoci in giro. Devo ringraziare i 500 associati della “Prometeo”, perché che mi fanno sentire casa, famiglia, supporto in tutto ciò che faccio per noi e certo anche per me».

Per anni, un certo tipo di sanità ha considerato i pazienti soltanto come numeri.

Ora però la situazione sembra essere cambiata.

«Noi trapiantati – dice ancora Abate – siamo supportati da una eccellenza sotto tutti gli aspetti: clinici, chirurgici e umani. I medici e gli infermieri che ho incontrato prima, durante e dopo il trapianto si sentono delle eccellenze: chi ridà la vita e chi assiste alla rinascita di una vita si sente molto più vicino ai suoi pazienti. Si creano rapporti molto particolari, quasi familiari. Paradossalmente il numero ce lo siamo dati noi: un numero di protocollo che corrisponde al nostro numero di trapianto».

«Per quanto riguarda i trapiantati di fegato – conclude – di cui faccio parte, sono il 105 ed è una specie di buon nonnismo: siamo arrivati prima del numero 300 ma dopo quelli che erano sotto il cento. Quel numero rappresenta la classe di ferro, la leva di questa grande famiglia e ne siamo orgogliosi. Soprattutto, io 105, Pino Argiolas 103, Stefano Caredda 104 che abbiamo fatto la terapia intensiva insieme, ci sentiamo ancora più fratelli all’interno di questo bel gruppo. È un numero che ci siamo voluti dare noi quasi con orgoglio».

Andrea Matta

RIPRODUZIONE RISERVATA
© Copyright Il Portico