Per favore non chiamiamolo gioco La Sardegna ha un triste primato di spesa nell'ambito del sistema dell'azzardo

EditorialeSpesso si attribuisce un significato a un termine che in realtà non rispecchia il reale significato.

Così se si definisce l’azzardo un gioco, così come se si parla di ludopatia, si compiono due operazioni scorrette.

Il gioco è condivisione, capace di dare gioia, come da tempo sostiene l’economista cagliaritano Vittorio Pelligra, mentre la ludopatia sottende una sofferenza e, così come l’azzardo, ha ben poco di giocoso ma piuttosto viene vissuto come una sofferenza.

Eppure noi sardi ci diamo molto da fare e ciascuno di noi, neonati compresi, spende quasi mille euro all’anno in pratiche d’azzardo, come sottolineano gli sconfortanti dati presentati dalla Caritas diocesana, per un totale di oltre 1 miliardo e mezzo di euro, speso lo scorso anno.

La definizione migliore come al solito l’ha data papa Francesco che ha bollato la pratica dell’azzardo come «un cancro».

Lo scorso 4 febbraio ricevendo i partecipanti all’incontro sull’Economia di comunione Francesco aveva detto tra l’altro: «Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!»

E ancora: «La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate».

Indicazioni più che mai chiare che però faticano a trovare risposte concrete. I comuni e le regioni stanno cercando di porre un freno. Da ultimo quello di Cagliari, che ha regolamentato orari e dislocazione degli apparecchi dell’azzardo.

C’è però la possibilità che ciascuno di noi dia il proprio contributo per invertire la rotta. L’economista Leonardo Becchetti ama parlare di «voto con il portafoglio», vale a dire della possibilità di premiare con le proprie scelte negli acquisti le aziende che svolgono la loro attività seguendo prassi etiche, compresi gli esercizi che vendono gratta e vinci o hanno installate delle slot machine, spesso si tratta di bar o altri locali di ritrovo. Sarebbe sufficiente verificare se all’interno ci siano strumenti legati all’azzardo e scegliere di fare colazione o prendere l’aperitivo in un altro locale, privi di questi apparecchi.

Da alcuni anni questa prassi si è diffusa con il movimento Slot mob, che anche a Cagliari ha preso piede. Sabato scorso un altro bar del centro città ha deciso di eliminare le slot machine per far posto ad altro.

Un modo semplice per far capire che è possibile, anche nel proprio piccolo cambiare, le cose e che, nonostante l’invito a «giocare responsabilmente», c’è poco di responsabile in quella pratica.

Don Luigi Mazzi, sacerdote e volto del piccolo schermo, su Famiglia Cristiana scriveva poco meno di un anno fa: «Oggi gioco può significare anche “azzardo”, cioè tutto il contrario del gioco di ieri. Guai se qualcuno tenta di smascherare questo giochetto. I furbi, i mafiosi, i gestori di bar e di locali vari giurano che l’azzardo è un gioco. E con la parola gioco equivocata stanno rovinando la vita a milioni di persone».

Allora che lo si chiami azzardo senza il suffisso gioco, perché quella pratica non ha nulla a che spartire con il«ludus» praticato  in epoca romana.

Roberto Comparetti

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