Fece del fango e lo spalmò sugli occhi del cieco IV Domenica di Quaresima (anno a) - 26 marzo 2017

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui.

(forma breve: Gv 9,1.6-9.13-17)


Commento a cura di Marco Statzu

In questa intricata storia di vedenti che non vedono e di ciechi che vedono, si pone il dilemma di ogni ricerca di fede: in ballo c’è più che l’orgoglio ferito dei capi o il riconoscimento di un miracolo.

Si tratta di riconoscere colui attraverso il quale si può conoscere il volto autentico del Padre. Nel momento dell’addio, Filippo chiederà: «Signore, mostraci il Padre e ci basta», e Gesù a lui: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi ha conosciuto?». Segno che visione e cecità convivono anche nei discepoli più intimi, in quelli ai quali il Maestro ha lavato i piedi.

La pretesa di Gesù è inaccettabile per i giudei, perchè egli è un uomo.

Noi però, anestetizzati da due millenni di predicazione che afferma che Gesù è Dio (e lo dice con sacrosanta ragione), non ci scandalizziamo più per il fatto ch’egli sia Dio in quanto è uomo. E mai smetteremo di chiedere vista buona per entrare in questo mistero, e mai potremo dire: «Io non sono come i farisei», perchè spesso smentiamo nei fatti il principio dell’incarnazione, cioè l’accettazione della sua e nostra umanità (è il percorso di queste domeniche: le tentazioni, il dialogo con la samaritana e la trasfigurazione).

Come è noto un cieco sviluppa enormemente gli altri sensi, e probabilmente anche un sesto senso, una «visione del cuore», quelli che Gesù chiama altrove puri di cuore, ai quali è appunto promessa la visione di Dio. Tale luce del cuore genera anche per contrasto paura in coloro che circondano il puro di cuore, non è mai una grazia senza conseguenze, spinge genitori, testimoni, farisei a prendere una decisione pro o contro («sono venuto per un giudizio»).

Ben lo aveva compreso Eugenio Montale, quando scriveva in memoria di sua moglie, affettuosamente chiamata Mosca, proprio perchè affetta da una gravissima miopia: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perchè con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perchè sapevo che di noi duele sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue» («Xenia», II, 5).

La visionarietà del cristiano nasce da uno sguardo che ha incontrato Gesù Cristo: l’illuminazione non ha infatti una radice esoterica, ma relazionale.

Siamo «luce nel Signore», «figli della luce»: non compiamo rituali che chiudono in una congrega, ma incontriamo il Signore che ci apre alla conoscenza del Padre e di noi stessi.

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