La legge sul fine vita e i contrasti con l’etica Una lettura del recente biotestamento alla luce del Diritto

la legge sul fine vitaLa legge 219 del 2017, sebbene richiami i diritti alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e basi la relazione sanitaria sul consenso informato, dove si incontrano autonomia del paziente e competenza, autonomia professionale e responsabilità del medico, presenta numerose disposizioni in contrasto con tali principi.

In primis la definizione della nutrizione e idratazione artificiali come trattamenti che il paziente può rifiutare al pari degli altri e che il medico “è tenuto a rispettare” è un espediente che favorisce, anziché disincentivare, atteggiamenti eutanasici (contro vita, salute e dignità umana).

La disposizione per cui il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda in presenza di “sofferenze refrattarie” è poi generica e trascura il parere del Comitato Nazionale di Bioetica, che ha fissato specifiche condizioni per la sua liceità. Fra esse, “sintomi refrattari” – requisito clinico specifico – e imminenza di morte.

L’ambiguità della norma consente invece comportamenti attivi per la morte e non solo agevolazioni all’abbandono terapeutico dei pazienti inguaribili; rischia anche di inquinare lo statuto delle cure palliative, che per l’ottima legge 38/2010 promuovono l’accompagnamento del morire offrendo non l’aiuto al suicidio, ma supporto al dolore fisico e psicologico del paziente e della sua famiglia.

Preoccupa l’art. 3 su minori e incapaci, che legalizza la possibilità che il genitore, l’amministratore di sostegno, il rappresentante, ecc. si opponga a cure che il medico ritiene “appropriate e necessarie” e ricorra al giudice tutelare per ottenere in caso di contrasto la decisione ultima. La norma fa presagire che il medico attuerà poi come mero esecutore il provvedimento giudiziale, qualunque ne sia il contenuto, in contrasto con gli sbandierati principi dell’autonomia e della responsabilità mediche e col diritto alla salute, perché il giudice non ha competenze cliniche. Il contrasto è anche con l’art. 6 della Convenzione di Oviedo, per cui «un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa».

Altra lesione dell’autonomia medica e dell’autodeterminazione del paziente deriva dal render vincolanti le DAT, redatte chissà quando da chi neppure era “paziente” e quindi in assenza di reale “consenso informato” rispetto a una concreta terapia: il medico può disattenderle in certi casi in accordo col fiduciario e in caso di disaccordo la decisione sarà del giudice.

Nell’intento di superare il vecchio paternalismo medico, si va verso un nuovo paternalismo giudiziario.

È poi da stigmatizzare l’assenza di una disciplina dell’autenticità, conservazione e reperibilità delle DAT: ci si limita a rinviare all’esistente (scritture private più o meno autenticate, registri comunali e/o regionali, cartelle elettroniche, se esistenti).

Invece la Consulta aveva invocato nel 2016 una disciplina statale dettagliata e uniforme per tutte le regioni.

L’assetto creato si pone anche contro l’autodeterminazione, poiché l’assenza di garanzie rende possibili abusi, ad esempio da chi può trarre vantaggio economico dalla morte del malato.

Giovanna Razzano – Professore aggregato di diritto pubblico – Università «La Sapienza» – Roma

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