Le parrocchie formino le famiglie e i ragazzi Ezio Aceti, psicologo e consulente psicopedagogico dell’Ufficio di Pastorale familiare della Cei, ha proposto le sue riflessioni ai catechisti e ai sacerdoti

Educazione, comunicazione e affettività. Temi sempre più attuali e difficili, specie ai giorni nostri in cui sembra prevalere l’egoismo, la ricerca esasperata del piacere e la disgregazione sociale. Ezio Aceti, psicologo dell’età evolutiva, ha offerto, con il suo consueto stile immediato e passionale, alcune considerazioni proposte al Convegno catechistico.

I ragazzi e i bambini non si sentono ascoltati dai genitori. Come gli adulti dovrebbero modificare il modo di rapportarsi con loro?

Noi oggi dovremmo fare come farebbe Gesù. Lui è venuto perché attratto dalle fragilità dell’uomo. Se i genitori non ascoltano i propri figli è perché sono «mangiati» dalle tante cose da fare. E la Chiesa? Dovrebbe rispondere a questo bisogno organizzando, nelle parrocchie, corsi per genitori, aiutandoli a capire la bellezza dello sviluppo del bambino. La colpa può essere oggettivamente loro ma, soggettivamente, sono proprio i genitori, i primi, ad aver bisogno. Sono due le grandi operazioni che la Chiesa deve condurre: riportare la famiglia al centro, abituando i genitori a parlare dei figli, dell’educare. Ai ragazzi, invece, deve porgere quelle verità che oggi il mondo non offre più, aiutandoli a diventare persone libere, padroni delle emozioni e degli istinti, senza farli sentire in colpa per ciò che provano.

Come parlare con loro in concreto?

Il linguaggio dovrebbe essere quello trinitario. Noi possiamo parlare della Trinità e di Dio non tanto perché ne abbiamo le capacità, ma perché è Dio che si adegua a noi e alle nostre categorie. Si adegua come una mamma fa con il suo piccolo: così dobbiamo fare noi. Il linguaggio trinitario è il linguaggio dell’amore. L’amore contiene la grandezza del Padre, del Figlio e dello Spirito. Tutte le volte che noi parliamo con un ragazzo, dobbiamo usare il linguaggio trinitario, che contiene i tre concetti dell’amore: il primo è l’empatia. Prima di parlare, cerchiamo di accogliere: se ha fatto qualcosa di sbagliato, diciamolo, ma prima comunichiamogli quello che proviamo in noi: «mi spiace che abbia fatto quella cosa». La seconda parte è la verità, la regola: «dovevi fare in questo modo». Ma la terza parte è lo Spirito, il sostegno, la luce: «sono sicuro che la prossima volta farai meglio». Sapete che cosa penserà il bambino? Capirà di aver sbagliato ma che può migliorare, avendo stima di noi, perché non lo abbiamo umiliato o ferito.

A proposito dell’affettività in questi tempi digitali, come dobbiamo aiutare i ragazzi?

Credo ci vorranno 50 anni perché possiamo avere una giusta pedagogia dell’affettività. L’educazione affettiva ha bisogno del tempo, dell’appartenenza, del vis a vis, di far capire all’altro che ci si prende cura di lui. Il digitale invece è rapido, propone mille relazioni e attira molto, perché fa conoscere tante cose, ma tutte superficiali. Bisogna che le due entità, famiglia e ragazzi, si incontrino. I ragazzi cercando di non diventare dipendenti da questi strumenti tecnologici e i genitori provando a diventare più attenti nel trasmettere i contenuti che aiutano la crescita affettiva. Bisogna che approfondiamo i fondamenti della relazione e affiniamo un linguaggio adeguato per fare una vera educazione all’affettività e all’amore.

Quale ruolo, invece, per i catechisti?

I catechisti devono soprattutto avere un rapporto personale con Gesù. Noi abbiamo confuso la catechesi con la dottrina. La catechesi prevede che un educatore sia talmente legato a Gesù che non possa non trasferire questa luce, pescando dal suo rapporto personale con Gesù e costruendo con l’altro la stessa relazione che Gesù aveva con la gente. Gesù veniva accusato di sporcarsi le mani con tutti: un catechista, dunque, è uno che si sporca le mani con tutti i propri ragazzi, perché innamorato di Gesù e come tale dà la luce che promana da questa relazione così intensa.

Corrado Ballocco

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