Almeno 5 milioni di britannici chiedono di rivedere la «Brexit».
La decisione di uscire dall’Unione Europea fa paura, agli inglesi e al resto d’Europa, perché le divisioni, checché ne dicano i nazionalisti, generano timori, specie nel contesto globalizzato nel quale siamo immersi.
Il referendum del giugno 2016 sull’uscita dall’Unione Europea è stato vinto dai favorevoli con uno scarto irrisorio, poco più del 50 per cento.
Nei giorni successivi il capo della fazione vittoriosa, Nigel Farage, ha parlato di un Regno Unito indipendente, liberatosi da Bruxelles: in realtà poco dopo Farage ha lasciato il movimento che aveva portato alla vittoria. Una fuga in piena regola dalle proprie responsabilità: ha abbandonato la nave dopo averla portata sugli scogli.
Così per una delle più grandi democrazie del Vecchio Continente è iniziato un lungo e controverso cammino, che si sarebbe dovuto concludere nei giorni scorsi.
In realtà dopo l’uscita di scena del Primo Ministro David Cameron e l’avvento di Teresa May le cose nel Paese sono man mano diventate sempre più problematiche.
Confermata la decisione di lasciare l’Unione Europea diverse multinazionali hanno abbandonato la Gran Bretagna, per spostare le loro produzioni in altri paesi, così come molti britannici hanno preso consapevolezza che seguire Farage e il suo movimento indipendentista non ha dato buoni frutti.
La disoccupazione è cresciuta, l’ordine pubblico è più che mai problematico: non c’è giorno nel quale non ci sia la morte violenta di un giovane per le strade di Londra. Senza dimenticare le problematiche legate al sistema sanitario e alla crescente povertà.
Di tutto questo in Gran Bretagna non si parla e né si discute in modo da arrivare ad una soluzione, perché il mondo politico è tutto proteso a trovare una soluzione al problema «Brexit».
Come ha detto anche il sindaco di Londra, Sadiq Khan, la «Brexit è un vero macello» ed ora molti chiedono di rivedere la decisione e di convocare un secondo referendum, per dare una nuova possibilità.
È la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che prima di ascoltare le sirene delle divisioni occorre valutare adeguatamente le possibili conseguenze che una tale scelta comporta.
Probabilmente un’azione più incisiva della Gran Bretagna, all’interno dei meccanismi che regolano la vita dell’Unione Europea, avrebbe permesso di intervenire sul funzionamento, eliminando così una delle ragioni per le quali i britannici hanno dato ragione a Farage: la burocrazia e la poca trasparenza sull’uso delle risorse da parte dell’UE.
Quanto poi al resto d’Europa, diversi Paesi sono preoccupati per le conseguenze sul fronte dell’import ed export: la possibile uscita della Gran Bretagna potrebbe portare all’adozione di dazi sui prodotti europei nel Regno Unito e viceversa.
Anche in Sardegna c’è preoccupazione: lo dicono gli artigiani che, nel solo 2018, hanno venduto oltremanica merce per 47 milioni di euro.
Se si dovesse arrivare alla completa uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, l’Isola avrebbe meno possibilità di vedere acquistati i propri prodotti, perché colpiti da dazi.
La «Brexit» è l’esempio lampante di come, in questi tempi, l’autarchia, l’isolamento e il camminare per proprio conto non portano benefici. I battitori solitari hanno sempre il fiato corto.
Roberto Comparetti
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