La fede o è missionaria o non è fede La riflessione di don Carlo Rotondo, missionario fidei donum in Tanzania

Colgo volentieri l’occasione di questa ospitata sulle pagine del nostro settimanale diocesano per mandare i miei più cari e affettuosi saluti a tutta la Comunità ecclesiale cagliaritana a partire dal carissimo monsignor Giuseppe che la guida.

Don Carlo Rotondo in missione

La salute, grazie a Dio, regge bene ma, soprattutto, l’entusiasmo sacerdotale è sempre più che mai oltre i livelli di guardia e, a 60 anni compiuti, posso, col sorriso di sempre, ripetere: «Sono un prete felice!».

Inoltre, se Dio vorrà, dopo tre anni di servizio missionario, l’anno venturo, a estate inoltrata, conto di venire a Cagliari per un po’ di riposo e per ri-respirare l’aria di casa.

Si  è concluso il mese di ottobre, mese missionario, non si conclude però, e non può concludersi con ottobre, il nostro impegno missionario.

Perché, come ormai ce lo sta costantemente ricordando papa Francesco, missionario/a non è un sostantivo ma un aggettivo che qualifica, caratterizza e determina la nostra fede cristiana.

In altre parole, più semplici ma non meno incisive, la fede cristiana o è missionaria o non è fede cristiana.

Di tutte le icone bibliche della missionarietà della fede cristiana, quella che a me resta più cara e più chiara è quella di Maria Maddalena che, incontrato il Risorto, corre a perdifiato dai discepoli e con gioia, con entusiasmo e con tutto il fiato che gli è rimasto in corpo annuncia: «Ho visto il Signore!».

La missionarietà della fede cristiana perciò non è un impegno umanitario che nasce da «su bonu coru» verso il prossimo: ci sono organizzazioni umanitarie e filantropiche che lo sanno fare molto meglio di noi.

È l’annuncio di un incontro che ha sconvolto la mia storia e la storia di una comunità, che diventa credente non perché si frequenta la chiesa e le chiese ma che diventa Chiesa perché ha «visto» il Risorto.

Credere non è voce del verbo ragionare ma del verbo amare. Ssolo da innamorati possiamo essere e fare i missionari e le missionarie.

Ho visto il Signore non è l’affermazione paranoica o fanatica di uno pseudo veggenti ma è il mio cuore impazzito di gioia perché Colui che, passando nella mia vita mi ha chiamato: non è morto ma è vivo.

Se Dio non è morto ma è più che mai vivo, allora va raccontato in giro per le strade del mondo: nelle città e nei paesi, in montagna e sulle rive del mare, dalle Alpi alle piramidi, da nord a sud, dai grattaceli alle capanne.

Perché un Dio vivo, significa che resta viva la speranza, restano vivi i nostri sogni, resta viva la pace, resta viva… l’umanità.

E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno di sapere che il Dio della speranza, il Dio dei nostri sogni, il Dio della pace è vivo.

Queste mie righe non sono a chiusura del mese missionario ma spero siano l’augurio per un buon impegno missionario ciascuno là dove si trova.

Non posso fare a meno di ringraziare il nostro Arcivescovo che, permettendo i mandati missionari ad gentes e ,aggiungo anche ad migrantes, ha voluto dare un ancora più ampio respiro all’impegno missionario della Chiesa cagliaritana.

Volendo così assecondare ulteriormente l’invito di Papa Francesco a realizzare una chiesa in uscita. Sarà la storia a raccontarci se questa uscita è stata una «vacanza» o un investimento.

Posso però assicurare che la cronaca di oggi racconta di un ponte di preti, di giovani e di laici che, dopo essere venuti in missione per qualche tempo tornano a Cagliari «diversi» perché l’hanno «visto».

Don Carlo, missionario rossoblu

RIPRODUZIONE RISERVATA
© Copyright Il Portico