«Al di fuori di queste mura, vediamo le stesse scene che si ripetono in molte città del paese. Milioni di persone che riprendono la propria vita ed è in queste azioni, milioni di azioni di normalità, che troviamo la migliore risposta al terrorismo».
Le parole della premier britannica Theresa May, pronunciate davanti alla Camera dei Comuni, fanno comprendere il desiderio profondo di non cedere all’odio e al terrore anche dopo il tragico attentato che ha colpito il Parlamento inglese lo scorso 22 marzo, provocando cinque morti, tra cui quella dell’assalitore solitario, Khalid Masood.
A Londra vivono oltre 250.000 italiani, tra questi anche molti studenti universitari. Nicolò Gervasi, originario di Cagliari, è uno di loro e studia giornalismo alla University of London. La sua è una testimonianza preziosa per comprendere come i fatti sono stati vissuti dai residenti: «In strada e sui mezzi pubblici non ho percepito nessun tipo di allarmismo, il che è, secondo me, segno del fatto che i londinesi, abituati all’alta sicurezza di questa città, siano difficili da intimorire. Queste impressioni sono state confermate dalla reazione del giorno successivo all’attentato: solidarietà e sconforto per le vittime, ma soprattutto tenacia e voglia di riprendere a lavorare, vivere e circolare senza lasciarsi scuotere dal terrorismo. Io poi personalmente tuttora mi sento al sicuro a Londra e le mie abitudini non cambieranno».
Quando è avvenuto l’attentato era presente a Londra anche una classe del liceo Dettori di Cagliari in viaggio d’istruzione. Il gruppo si trovava in una zona distante da Westminster e non ha avuto un contatto diretto con l’evento e i momenti successivi. Le voci di alcune delle ragazze presenti possono comunque aiutare a capire come si vivono da vicino dei fatti che appaiono lontani e invece, in qualche modo, riguardano la vita di tutti.
Elisabetta, 18 anni, racconta così quei momenti: «Quando sono venuta a conoscenza di quanto è accaduto, ero molto preoccupata, non tanto per me, perché mi sentivo al sicuro, non essendo sola e avendo sentito che l’assalitore era stato ucciso, ma all’idea che i miei famigliari fossero venuti a conoscenza dell’accaduto prima di me. Il mio primo pensiero è stato infatti chiamare casa per dare mie notizie e tranquillizzare i miei genitori». Più in generale, per Elisabetta, «è inammissibile che, ancora una volta, una città europea abbia subito l’ennesimo atto di follia da parte di uomini profondamente disturbati che si nascondono dietro a ideali religiosi fanatici e malati compiendo, in virtù di questi, le più spaventose efferatezze contro l’umanità. Non si può morire in questo modo così atroce, non si può tollerare che altre vittime innocenti vengano massacrate in questo modo».
Dello stesso gruppo scolastico faceva parte anche Guglielmina, che descrive così la sua esperienza: «Quello che è successo a Londra penso abbia scosso il mondo intero, facendo capire quanto effettivo sia il pericolo. Nonostante il dramma fosse accaduto da pochi minuti, a Oxford Street la vita continuava ad andare avanti, le persone sembravano non sapere niente di quello che era appena accaduto, non erano né scosse né dispiaciute, erano totalmente assenti dal mondo circostante. A me, invece, ha toccato molto, non mi sentivo più al sicuro in una città che ritenevo “intoccabile”. Capivo come si sentivano tutti i francesi, i tedeschi e quanti hanno subito, anche se non in prima persona, un attacco terroristico, potevo sentire le loro emozioni, il senso di perdita e di paura».
Le parole delle ragazze confermano, sicuramente, la paura che il terrorismo è in grado di suscitare, ma allo stesso tempo la volontà di reagire affermando con forza il desiderio di convivenza pacifica e serena che deve caratterizzare l’Europa e il mondo intero.
Roberto Piredda
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