Padre Giulio Albanese, 57 anni, missionario comboniano e giornalista esperto di Africa e Sud del mondo, ha guidato il seminario «Comunicare le guerre dimenticate per non dimenticare» organizzato dall’Ordine dei giornalisti in collaborazione con la delegazione regionale Caritas Sardegna, e con l’Ucsi Sardegna.
Qual è il rapporto tra le guerre dimenticate e il tema delle migrazioni?
Le guerre dimenticate, definite così perché non «mediatizzate» nel contesto informativo italiano, sono una delle cause che generano il fenomeno migratorio, da meridione verso settentrione. Anche se, è bene ricordarlo, il fenomeno migratorio è presente negli stessi paesi del Sud del mondo. Per esempio, in Africa vi è una quota consistente dei rifugiati che scappa dalle guerre che trova ospitalità proprio all’interno del continente africano. Poi vi è anche una quota significativa che, in una maniera o nell’altra, cerca di poter soddisfare il diritto alla vita sbarcando, per esempio, sulle coste del Belpaese. Io credo che dobbiamo interrogarci di fronte a questo fenomeno, perché l’informazione è la prima forma di solidarietà e credo che, per chi oggi fa il cronista o opera nell’ambito dell’informazione, non ci si possa fermare alla mera cronaca degli sbarchi, ma sia importante anche spiegare le ragioni e renderle intelligibili all’opinione pubblica. E certamente le guerre, specie quelle dimenticate che si combattono per il controllo delle commodity (in inglese «materie prime», ndr) energetiche e agricole, rappresentano un fattore importante a riguardo.
Qual è la responsabilità dell’informazione nel raccontare questo rapporto?
Nel nostro Paese, ma più in generale a livello planetario, esiste la tendenza a istituzionalizzare l’informazione, per cui si dà spesso voce all’opinione delle autorità politiche e alle opposizioni; si dà voce a chi è nella stanza dei bottoni e ai dissidenti. Per certi versi succede lo stesso anche in Africa, quando i lanci delle agenzie di stampa ospitano il parere dei governativi e dell’opposizione, a volte addirittura dei movimenti ribelli. Solitamente, purtroppo, sia nel Sud del mondo come a casa nostra, la grande assente è la società civile. Credo che chi fa informazione abbia la sacrosanta responsabilità, innanzitutto, di dare voce alla gente e, per usare il gergo di papa Francesco, ai poveri, a chi non conta nulla e che spesso sono vittime sacrificali nel contesto della globalizzazione dei mercati. Anche perché, in effetti, l’unico vero rimedio è quello di affermare la globalizzazione dei diritti che è la globalizzazione della solidarietà. Purtroppo, da questo punto di vista, il cammino è ancora tutto in salita.
Come descrivere correttamente questo spaccato?
La società civile rappresenta, a livello globale ma soprattutto nel Sud del mondo, il vivaio per quelle che, in prospettiva, potrebbero essere le future classi dirigenti. Parliamo di associazioni, gruppi, movimenti, chiese cristiane. Anche la Chiesa cattolica in Africa, in molti contesti, è un’espressione straordinaria della società civile, perché ha scommesso sulla carta educativa dell’istruzione ma, soprattutto, perché afferma la consapevolezza di sé, ricordando alla gente che bisogna essere protagonisti non solo del futuro ma pure del proprio presente. In Africa la maggior parte del Pil, direi quasi il 61%, è generato dalle donne e i giovani rappresentano la maggioranza della popolazione: attualmente il 65% della popolazione africana è al di sotto dei 25 anni e questo la dice lunga sul fatto che sia un continente giovane. Credo che fare informazione significhi anche investire su queste risorse umane.
Francesco Aresu
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