Nessun servitore può servire due padroni

XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)

Dal Vangelo secondo Luca

«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.

Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te?

Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.

L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno.

So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.

Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”.

Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”.

Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”.

Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.

Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?

Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

(Lc 16,1-13)

Commento a cura di Ferdinando Caschili

Se dovessimo scandire con un ritmo teatrale il brano evangelico di questa domenica potremmo dire che è costruito con: un antefatto, all’uomo ricco vengono aperti gli occhi sui loschi traffici dell’amministratore infedele; un primo atto: l’amministratore deve comparire dinanzi al suo datore di lavoro che gli dà l’opportunità di chiarire la sua situazione, ma l’esito dell’incontro è il licenziamento in tronco.

Un secondo atto: l’amministratore prende atto della sua incapacità a sostenersi senza i traffici orditi ai danni del padrone.

Il lavoro manuale lo spaventa e la prospettiva della miseria lo fa vergognare, ma deve in qualche modo assicurarsi un futuro non troppo degradante.

Un terzo atto: l’amministratore infedele si accorda coi debitori, facendo abbondanti sconti su quanto dovuto e guadagnandosi così nuovi amici; un quarto atto: la lode del padrone per la scaltrezza del suo amministratore; quindi l’epilogo, con le sentenze di Gesù, alcune entrate nel comune modo d’esprimersi, come il famoso dualismo tra Dio e mammona (anche se nelle nuove traduzioni questo termine non compare più).

Quali indicazioni per noi?

Mi sembra utile evidenziare che all’avvicinarsi del compimento dell’Anno Liturgico nella liturgia emerge il tema del giudizio finale.

Il tempo datoci è quello da utilizzare per «amministrare bene» i doni che ci sono stati affidati, beni temporali e spirituali, di cui dovremo rendere conto al Signore al termine della nostra vita.

Ci viene così ricordato che non siamo padroni, ma solo amministratori.

La sentenza forse più severa è quella che contrappone i figli delle tenebre e i figli della luce; queste due definizioni le troviamo spesso nella Scrittura.

«Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 20-21).

«Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente» (Ef 5, 8-11).

Mi sembra che uno dei significati possibili sia la sottolineatura di una certa inerzia dei figli della luce rispetto ai figli delle tenebre: se questi, per garantirsi una certezza che tutto sommato si esaurisce nell’arco temporale, si danno da fare con solerzia, fantasia e audacia, con quanto maggiore impegno i figli della luce dovrebbero trafficare i loro talenti sapendo che il vero orizzonte è quello dell’eternità. Siamo vittime di una certa accidiosa pigrizia? 

Pensiamoci. 

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