«Viviamo tempi dove la mentalità eugenetica è predominante». Non usa mezze misure il professor Giuseppe Noia, primario dell’Hospice perinatale del policlinico Gemelli di Roma e presidente dell’Associazione ginecologi ostetrici cattolici. «Da più di 30 anni — dice — questa mentalità viene fatta passare con un buonismo apparente, che però provoca danni alla centralità della persona. Il grande problema di oggi è far passare molti cristiani dal livello di informazione a quello di conoscenza: molti sono informati ma non hanno conoscenza, perché questa fa crescere la consapevolezza che ci fa poi comprendere il valore. È necessario spostare l’accento dal «sapére» (la conoscenza) al «sàpere», (l’assaporare), e non aver paura di contaminare, come dice papa Francesco, la conoscenza con il servizio, con la compassione e con la tenerezza.
Bisogna quindi evitare che la scienza arrivi ad auto-compiacersi?
Certo. Una scienza che arrivi ad un tale grado di narcisismo è sterile, mentre una scienza che si fa servizio, e che quindi «lascia il camice e si mette in grembiule», è molto feconda. Ho parlato a Oristano a una cinquantina di ostetrici e medici, alcuni dei quali erano a favore dell’interruzione della gravidanza e per i quali l’eugenismo non è una sensazione ma una realtà. Basti pensare che in Italia il 93% dei bambini down viene mandato all’interruzione di gravidanza.
Un dato molto alto.
Altissimo, che non si discosta da quelli del passato: settant’anni fa gli invalidi venivano mandati nei campi di concentramento per poi essere eliminati. Da allora a oggi non è cambiato nulla perché l’aborto eugenetico dallo 0,5% di tutti gli aborti volontari del 1981 è salito al 5% del 2015, con un incremento di 10 volte in 34 anni.
Come combattere questa deriva?
Oltre a essere una deriva culturale è una miopia molto forte, perché gli occhi non vedono più la persona e il suo valore. Culturalmente dobbiamo far comprendere la bellezza e la meraviglia della vita in tutte le sue forme. Ho portato per tre volte a Bruxelles, al Parlamento europeo, i tre cardini dei diritti dell’embrione che scientificamente si fondano sul dimostrare che l’embrione è un protagonista, e non si tratta di una scienza cattolica ma di scienza accettata dalla cultura mondiale, che è in relazione con la madre, dalla quale il feto riceve ossigeno e alla quale dona le cellule staminali che la curano, e il bambino può essere curato in utero come un paziente adulto. Questi tre elementi caratterizzano il concetto filosofico di persona, che è protagonista e relazione e può essere curato come un adulto.
Una prospettiva decisamente diversa?
Oggi la scienza non può auto-compiacersi di nulla. Spesso dico che non bisogna aver paura di Galileo ma di come viene usato Galileo. Le faccio un esempio.
Prego.
La ruota, nel corso dei millenni, è stata un passaggio epocale per i commerci ma è stata usata anche come ruota della tortura: stessa conoscenza usata in due modi opposti. Allo stesso modo il nucleare usato bene o usato per distruggere. La diagnosi pre-natale ugualmente può essere usata a fin di bene oppure no. Il titolo dell’incontro in Seminario regionale è stato «Vedere per curare, accompagnare per amare» ed è questo l’approccio che si dovrebbe avere su questo tema, perché abbiamo tutti gli elementi per far sì che non ci siano steccati ideologici. La legge 194 prevede, al punto 5, la possibilità di dare alternative alla donna e non gliele offriamo. In questi anni ho seguito più di 8.000 procedure, delle quali oltre 3.000 erano casi di aborti a rischio eugenetico, con 40mila ecografie fatte.
Da dove nasce questa sensibilità?
Da un incontro con Madre Teresa. Nel 1981 è venuta a ritirare la laurea «honoris causa» e ai medici del Policlinico ha detto «se c’è una donna che non vuole il bambino, me lo dia». Tre giorni dopo ho visto una suora alla quale ho chiesto cosa stesse cercando. Lei ha risposto «un ginecologo», io le ho risposto «eccomi». Da lì è iniziato tutto. Siamo a 4.500 ragazze madri che hanno partorito da noi. Nella nostra struttura è nata la terapia fetale in risposta all’aborto eugenetico, le cure palliative prenatali, l’accompagnamento dei feti terminali. Tutto un mondo volontariamente misconosciuto che emerge da solo. Oggi sono sei gli hospice prenatale in Italia, strutture che offrono quell’alternativa di cui parla la legge 194. In 30 anni nessuna donna è venuta a recriminare per il suo bambino, mentre a distanza anche di decenni, a volte, i traumi dell’aborto si fanno ancora sentire.
Roberto Comparetti
© Copyright Il Portico