È il direttore della Chirurgia generale del Policlinico universitario di Monserrato. Piergiorgio Calò, poco più che 50enne, nel suo approccio all’attività ospedaliera si sforza di tenere nella dovuta considerazione il paziente.
«Gli eccessi di burocrazia – dice – troppo spesso ci portano via prezioso tempo nel lavoro e talvolta rischiamo di allontanarci dal malato. La necessità di annotare tutto sul computer non lascia molto tempo alla possibilità di avere uno scambio con i degenti. A volte, tuttavia, prima di andar via in serata, dopo una giornata di impegnativo lavoro, capita di avvicinarsi in reparto e passare a salutare qualche paziente. Oppure nel fine settimana, il sabato o la domenica mattina quando si è meno impegnati, si ha la possibilità di andare a trovarli e così il rapporto di fiducia cresce».
In un tempo nel quale la misura dell’efficienza sanitaria è data dal solo contenimento dei costi e dove la sensibilità e la vicinanza a volte non sono alla base dell’agire degli operatori ospedalieri, un approccio differente, capace di rimettere al centro la persona, diventa occasione di ripensare anche alla professione medica. «Anche per noi – riprende il dottor Calò – questo tipo di vicinanza diventa occasione per rimettere al giusto posto il degente, la persona che si trova in ospedale. Se i pazienti ricevono benefici dalle nostre visite extra, rispetto alla routine legata alla patologia che stiamo curando, aver un rapporto meno formale con il malato aiuta noi medici a vivere con più serenità il nostro lavoro».
Alla base quindi del «buon agire in medicina» ritorna quel elemento che era prassi fino alla finanziarizzazione della Sanità pubblica: il rapporto tra medico e paziente basato sulla reciproca fiducia e su quella vicinanza e condivisione che il dottore attuava sul paziente. «Essere medico che segue con costanza il malato, – dice ancora Calò – anche fuori dai soliti schemi, fa crescere e migliora la nostra Sanità».
Il contenimento dei costi, così come gli sprechi sono di fatto le due facce della stessa medaglia che però rischiano di allontanare il centro dell’agire nel mondo della Sanità: la cura integrale della persona.
«Lo sforzo che ogni giorni facciamo – conclude il professore – è quello di superare le necessità di un sistema che punta su efficienza e riduzione delle spese, ma che per ottenere questi risultati rischia di passare anche sulla testa dei pazienti».
Esistono studi dai quali si evince come un rapporto non formale ma empatico, fatto di attenzione del medico, sostiene meglio il percorso di degenza dei malati.
Il Massachusetts General Hospital ha prodotto una ricerca dalla quale emerge che l’empatia con lo specialista ha un ruolo centrale nell’affrontare la malattia.
Lo stesso papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale del Malato ha invitato a mantenere il malato «al centro del processo di cura». Così come questo approccio deve essere tenuto a mente dai «cristiani che operano nelle strutture pubbliche e che con il loro servizio sono chiamati a dare buona testimonianza del Vangelo».
Tutti, credenti e non, sono quindi chiamati a vivere la professione sanitaria tenendo conto della centralità dell’Uomo: è lui il protagonista dell’agire nel mondo della fragilità e della malattia.
Roberto Comparetti
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