La vicenda di Charlie Gard, il bambino inglese di 10 mesi, scuote le coscienze, suscita pesanti interrogativi, coinvolge i sentimenti di tanti. I medici londinesi, ritenendo che la rarissima malattia genetica di cui è affetto sia causa di forti sofferenze e non lasci speranze di guarigione e di vita, avevano deciso di sospendere i trattamenti salvavita e lasciarlo morire.
I suoi genitori si erano opposti ed erano ricorsi alla magistratura, la quale, nei vari gradi di giudizio fino alla Corte Suprema, si era espressa a favore della decisione dei medici. Connie e Chris Gard non si sono arresi e la loro battaglia è andata avanti. Avevano presentato ricorso alla Corte europea dei diritti umani perché fermasse la procedura di morte e nel frattempo avevano raccolto, attraverso donazioni di gente comune, più di un milione e mezzo di euro per tentare una terapia sperimentale negli Stati Uniti. Il 27 giugno è arrivata la sentenza definitiva e sconcertante: i medici inglesi possono «staccare la spina».
La Corte di Strasburgo ha dichiarato di non potersi sostituire alle competenti autorità nazionali, le cui valutazioni sono ritenute «meticolose e accurate». Il suo giudizio entra comunque nel merito, quando asserisce che «è nel miglior interesse del bambino interrompere il supporto vitale offerto dai macchinari. Ulteriori trattamenti esporrebbero Charlie a sofferenze continue e ad altro stress senza offrire alcun beneficio».
«Il miglior interesse di» è una formula usata altre volte in passato dalla magistratura inglese e statunitense per superare il principio dell’inviolabilità della vita e far prevalere un giudizio sulla «qualità della vita» altrui.
Anche la Corte di Cassazione, nella sentenza del 2007 sul caso di Eluana Englaro, ritenne che le si potevano sospendere idratazione e alimentazione sulla base certo di una sua precedente volontà, ricostruita tra l’altro in maniera incerta, ma insieme anche per il fatto di trovarsi in uno stato vegetativo persistente. In conclusione, il principio dell’autodeterminazione, che viene sempre portato a sostegno di un assurdo «diritto a morire», non è mai scevro dal giudizio altrui sul valore della vita di chi è malato. Tanto che, anche quando non può decidere per se stesso, ci si arroga il diritto di decidere, «nel suo migliore interesse», che muoia.
L’esperienza dell’Olanda e del Belgio, che hanno da 15 anni legalizzato l’eutanasia, dimostra che il principio dello «slippery slope» è inesorabile: una volta posti su una «china scivolosa» non si può che cadere sempre più in basso, accettando alla fine ciò che all’inizio si intendeva evitare. In questi Paesi si è partiti circoscrivendo l’eutanasia per persone maggiorenni, con malattie fisiche terminali, che la richiedono insistentemente. Nel corso degli anni è stata praticata a persone cieche, con malattie degenerative ai primi stadi, a persone depresse o malate di mente, a chi pur essendo malato terminale non l’aveva richiesta affatto, a minorenni, dai 12 anni in Olanda, senza limiti di età in Belgio (nel caso di Charlie contro il volere dei genitori). Oggi si discute se dare la possibilità a ultrasettantenni di porre fine alla loro vita quando si sentano di peso per la società o semplicemente stanchi di vivere.
Poco cambia se l’intenzione di togliere la vita si realizza con un’iniezione letale (eutanasia attiva) o attraverso la sottrazione di sostegni vitali quali alimentazione, idratazione o respirazione artificiali (e passiva), come previsto dal ddl sulle Dat che è attualmente all’esame del Senato. Anche la vicenda di Charlie dimostra che il propagandato «diritto a morire» ben presto si trasforma in un «dovere di morire», imposto, se non da un magistrato, da un diffuso sentire sociale secondo il quale, in certe condizioni, non vale la pena vivere ed è meglio per tutti togliere il disturbo.
Stefano Mele
Docente di Bioetica – Facoltà teologica della Sardegna
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