L’estate, che tra qualche settimana ci lasceremo alle spalle, verrà di certo ricordata per il gran caldo, la siccità e gli incendi: tre elementi che hanno segnato profondamente la nostra Isola.
Le temperature raggiunte nel corso delle continue ondate di calore hanno pochi precedenti, segno forse che i cambiamenti climatici non sono la «fuffa» spacciata dagli ambientalisti, che qualcuno definisce «nemici dello sviluppo». Secondo alcuni climatologi le condizioni meteo tropicali che si sono manifestate da giugno in poi sarebbero dovute all’anticiclone sub sahariano, che avrebbe oltrepassato il mare per stazionare sulla nostra isola, evento decisamente insolito per frequenza.
Ma se il caldo ha messo a dura prova uomini, animali e piante, la perdurante siccità sta affossando quel poco che resta del settore agro-pastorale isolano, già alle prese con le speculazioni dei mercati finanziari, dove le quotazioni del latte e degli altri prodotti della terra sono giunte a livelli sotto la sussistenza, per chi vive di quanto produce.
Lo spiega bene Luca Saba di Coldiretti che racconta il dramma dei campi e degli ovili sardi, colpiti nelle scorse settimane anche dalla mano criminale dei piromani che hanno appiccato gli incendi.
La desolazione delle immagini aeree o di quelle condivise da semplici cittadini mostrano il volto sfregiato della Sardegna, come racconta Fausto Orrù, sindaco di Gonnosfanadiga, uno dei comuni isolani più colpiti dai roghi estivi. La giustificazione dei fuochi a fini agricoli è oramai desueta: il rogo che lo scorso 31 luglio ha ridotto in cenere centinaia di ettari nel Medio Campidano sarebbe scaturito dalle fiamme appiccate da una persona a un cumulo di rifiuti.
C’è poi la questione degli approvvigionamenti idrici. Qui la cultura, e la programmazione che è uno dei suoi frutti, hanno molto da insegnare. La Sardegna è da sempre deficitaria in termini di risorse di superficie: laghi e fiumi non riescono a soddisfare le crescenti esigenze di uomini, animali e piante. I bacini, forse, non sono sufficienti e non sempre ben connessi, ma, di certo, se non si cambia modalità di impiego, insegnando l’uso appropriato del bene acqua, sarà difficile evitare il ripetersi della penuria del prezioso liquido.
Roma sta rischiando di rimanere senz’acqua, complice la perdurante siccità, per questo sono stati messi in campo provvedimenti per ridurre sprechi e utilizzare con più parsimonia il bene acqua.
Rendere strutturali tutte le azioni per preservare il prezioso liquido, promuovendo una cultura del risparmio e dell’uso consapevole, associandola al rifacimento delle condotte idriche colabrodo: così si salvaguarda un bene così prezioso.
Ciò che manca è però una cultura del bene comune, quella che il Santo Padre non si stanca di promuovere.
Basta leggere poche righe della «Laudato si’» di papa Francesco per capire come dietro a questi mali ci sia una mancanza di cultura, quella del rispetto del creato. Francesco parla di conversione ecologica, della necessità di abbandonare l’antropocentrismo, così come nell’introduzione ricorda che «i modelli di crescita sembrano incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente».
Al di fuori dell’ambito cattolico, all’indomani della pubblicazione del documento, significativa è stata la riflessione di due giornalisti del New York Times. «Il Papa – avevano scritto Laurie Goodstein e Justin Gillis – è preoccupato per tutti i modi con cui l’umanità sta danneggiando il pianeta, e come tale quest’aggressione ambientale sta tornando come un boomerang per danneggiare l’umanità stessa».
Da qui la necessità di un cambiamento culturale, di una svolta, prima che caldo, cenere e sete abbiamo il sopravvento. La Giornata della salvaguardia del creato del 1 settembre ci spinge a riflettere sul tema.
Roberto Comparetti
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