La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda

Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno A)

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».

Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda».

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

(Gv 6, 51-58)

Commento a cura di Rita Lai

Nel tempo ordinario che viviamo, dopo la domenica dedicata alla Trinità, ecco ancora un richiamo profondamente pasquale, ossia il ricordo liturgico del Corpo e del Sangue del Signore. Una festa che richiama il senso del Giovedì Santo, riportando al cuore e allo sguardo del discepolo i segni particolarmente significativi del Signore in mezzo a noi. 

L’orizzonte in cui questa liturgia si muove è dunque quello della continuità della presenza del Signore nella Sua Comunità e nella vita di ogni uomo.

La pericope giovannea che oggi ascoltiamo è una parte del lungo capitolo 6 dedicato al pane di vita.

È Gesù stesso che si definisce così: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.

Anche in queste semplici parole già due piste di riflessione: il collegamento tra il pane e la vita e quello tra il pane e il cielo, simbolicamente il Luogo per eccellenza di Dio.

Un pane diverso, quindi, che dà la vita, come Gesù dirà più volte, a rimarcare questa caratteristica.

Un pane vero, come vero è il «pastore bello», come vera è l’acqua della Samaritana, o la luce che illumina l’uomo. Pane vero.

È lui il vero pane che l’uomo cerca, perché ha fame della sua parola e della sua presenza.

Ma quel pane vero non deve restare un episodio e basta, non deve sfamare la fame di un momento.

Gesù sta parlando di un cibo che nutre sempre, che è vero in quanto portatore di un valore aggiunto. In quel pane, come in ogni dono del Maestro, c’è la sua stessa vita.

Perché questo pane, come il pane dell’Ultima Cena, veicola qualcos’altro, o meglio Qualcun Altro.

Il discepolo che ascolta e impara è invitato a cogliere il senso di ciò che resta, che non muta, che ha sempre valore in quanto denso della vita di chi lo dona, come di quella di chi lo riceve, nel momento liturgico in cui si uniscono nel sacramento la fatica dell’uomo e il Dono di Cristo.

E lì avviene allora lo scambio che nutre e alimenta la Vita, quella vera. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui»: è come attualizzare il Prologo: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria». 

La gloria nella fragilità dell’incarnazione, il figlio di Dio nel figlio di Giuseppe, il Corpo e il Sangue del Signore in quel pane e in quel vino, frutto del lavoro dell’uomo.

Quel pane e quel vino sono dunque ancora un segno fondamentale: segno dell’umanità di Cristo, ma segno che resta, come solo Dio sa fare. Come i Giudei, anche i discepoli troveranno difficile capire questo, passare attraverso la carne e sangue di Gesù.

Il discorso eucaristico si comprende alla luce del discorso di addio, come abbiamo ben sperimentato in tutto il lungo tempo pasquale.

Nelle prove della vita Dio non recede dalla sua promessa: rimane fedele mandando il pane disceso dal cielo, per donare un pane che diventa parola e rimane, a saziare per sempre la fame dell’uomo e a ricordare che Dio non si stanca di lui.

Dio saprà mantenere la sua promessa, lo rimarchiamo.

Ma il discepolo non deve scoraggiarsi: ormai è educato a cogliere la «lezione»del Maestro, a vivere della Sua Parola e del Suo pane, a sentirLo sempre dalla sua parte, in una solidarietà che non conosce confini, né di spazio né di tempo.

In questa sorta di sigla finale che è la solennità del Corpus Domini sono ripresi tutti i temi del lungo tempo di Pasqua: a significare che nella vita del discepolo non esiste iato, ma solo la fedeltà amorosa di un Dio che non viene mai meno.

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