Dopo il tempo della pandemia prove di ripartenza in Sardegna
La salute è un bene comune perché è interdipendente, è nell’interesse collettivo e si ottiene solo cooperando gli uni con gli altri.
L’articolo 32 della Costituzione sancisce che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».
Eppure da troppi anni questo principio fa molta fatica ad essere applicato, viste le infinite storture del nostro sistema sanitario, che è pubblico ed universale, rispetto a quello di altre democrazie, dove invece è strutturato in maniera differente.
In attesa che l’Organizzazione mondiale della Sanità certifichi la fine della pandemia da Covid 19, in ogni parte del mondo si fa la conta dei danni che il virus ha provocato.
Nel nostro Paese il coronavirus ha fatto da cartina di tornasole ad un sistema già in crisi da anni e che ha dovuto far fronte ad una pressione mai generatasi prima.
È grazie alla sanità pubblica che tutti sono stati curati, assistiti e, per la stragrande maggioranza dei casi, strappati alla morte.
Oggi però la sanità pubblica ha le «ossa rotte», le scelte fatte pre-Covid si sono rivelate dannose: riduzione dei servizi sul territorio, eccessivo uso dell’ospedalizzazione e carico di lavoro di carattere burocratico sui medici, hanno reso la professione sanitaria non più appetibile per i giovani.
La Regione sta cercando di porre rimedio ad una emergenza che purtroppo ci accompagnerà per i prossimi anni, viste le carenze che quotidianamente vengono segnalate.
Secondo i sindacati la scelta dell’assessorato della Sanità di assegnare risorse economiche per le sedi disagiate e disagiatissime della Sardegna, è una prima risposta ai bisogni delle persone, specie di quelle che vivono nelle zone interne, lontane dai grandi centri e con servizi sanitari ridottissimi, se non assenti.
I rimedi devono però essere efficaci: il rischio è che si adottino provvedimenti incapaci di risolvere i problemi.
Ad esempio la prassi di utilizzare i cosiddetti «medici in affitto», deve essere accompagnata da una reale preparazione del professionista scelto: in alcuni casi sono stati segnalati casi di medici in sala parto privi di esperienza nel parto cesareo.
Così come occorre, quanto prima, trovare i ricambi in quegli incarichi gestiti finora da medici andati in pensione, ma deve essere fatto con personale specializzato in quella disciplina e non in altra.
Ci sono poi due elementi che riguardano i giovani medici.
Il primo è quello relativo alla scuole di specializzazione sarde, nelle quali spesso sono stati ammessi studenti di altre regioni i quali, una volta concluso gli studi, ritornano nelle loro città e non entrano quindi in servizio nella nostra Isola.
Il secondo elemento è quello relativo alla partenza verso destinazioni estere dei giovani medici sardi, in Paesi nei quali le retribuzioni sono decisamente più appetibili rispetto a quelle che possono avere qui in Sardegna.
Per entrambe le situazioni occorre trovare soluzioni rapide, capaci di dare certezze alle legittime richieste di assistenza sanitaria dei sardi.
Roberto Comparetti
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