Non si abroga una norma di civiltà

Preoccupa la raccolta di firme per la cosiddetta «eutanasia legale»

Doctor harms a patient with cutting tube in the hospital

La Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019, riguardante il caso Cappato-dj Fabo,  ha espressamente chiesto al Parlamento di approvare una nuova legge sul fine vita in grado di tradurre il suo verdetto, che ha depenalizzato l’assistenza al suicidio, pur in situazioni di gravissima patologia, legata a stati irreversibili e a dolori insopportabili, rispetto ai quali, peraltro, devono prima di tutto essere proposte cure palliative e di lenimento del dolore. 

Il varco è, dunque, stato aperto. 

Ora il Comitato «Eutanasia legale» e l’Associazione «Luca Coscioni» hanno proposto un «Referendum sull’eutanasia» ma che in realtà non è affatto un referendum sulla sola eutanasia, andando assai oltre. 

Com’è noto, infatti, i referendum non possono fare altro che abrogare leggi e, in questo caso, la norma da eliminare è una parte dell’articolo 579 del Codice penale, che riguarda il cosiddetto omicidio del consenziente. 

I cittadini italiani, dunque, pensando di votare a favore di una legge sull’eutanasia, in realtà voteranno a favore dell’abrogazione di una norma penale di grande civiltà, che vieta a una persona di ucciderne un’altra su richiesta. 

Sottolineo: una «norma di civiltà» perché in Italia e nel mondo occidentale vige il principio di solidarietà, che implica responsabilità anche per gli altri.

Se qualcuno chiede di essere ucciso e un altro esegue, in Italia è un reato. Abrogare l’articolo 579 del codice penale va molto oltre il tema dell’eutanasia, già di per sé drammatico.

Se passasse il referendum, nel caso in cui una persona fosse presa dallo sconforto e chiedesse a un’altra di ucciderlo su richiesta, non ci sarebbe più reato, mai. 

Ben altro, che eutanasia! 

Per usare un’immagine è come se per svuotare un porto si decidesse di prosciugare l’acqua dell’oceano.

Prima di indire il voto referendario, però, la stessa Corte costituzionale dovrà stabilire la legittimità dei quesiti da sottoporre ai cittadini, in quanto non si possono fare referendum su tutto.

Ci sono diritti inviolabili della persona, previsti nei primi articoli della Costituzione, che non sono sottoponibili a referendum.

Confido che la Corte costituzionale affermi che il quesito dei radicali sull’art. 579 Codice Penale  mira ad abrogare una norma che corrisponde a un principio costituzionale intangibile quale l’integrità fisica degli esseri umani e, pertanto, non venga ritenuto legittimo. 

Laddove invece lo fosse, certamente ci sarà il dovere morale di una campagna referendaria in grado di restituire piena informazione ai cittadini, per far comprendere che non si tratta di «buona morte», ma di abrogare una norma sull’uccisione su richiesta, fuori dai paletti indicati dalla Corte costituzionale con la sentenza richiamata all’inizio. 

Pensando poi alle corsie di ospedale, se dovesse passare il principio che anche lì si può dare la morte su richiesta del paziente con la somministrazione di un farmaco letale, le categorie più vulnerabili sarebbero – ovviamente – quelle che, prese dallo sconforto, non hanno nessuno accanto. 

Chi chiede di morire talvolta è in condizione di malattia insopportabile e, infatti, la stessa Corte costituzionale indica la strada principale nel rafforzamento della rete delle cure palliative e della terapia del dolore.

In tanti altri casi l’istanza di morte è condizionata da situazioni di solitudine, di abbandono, di indigenza: sarebbe deprecabile che una legge finisse per assecondarla con la somministrazione di un farmaco letale, tradendo una ben più profonda richiesta di aiuto di pazienti presi dalla disperazione.   

Alberto Gambino

Ordinario di diritto privato e Prorettore vicario dell’Università Europea di Roma

Presidente nazionale di «Scienza & Vita»

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