XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?
E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.
Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.
Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.
Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi.
Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo.
Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”.
Egli si indignò, e non voleva entrare.
Suo padre allora uscì a supplicarlo.
Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”.
Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Commento a cura di Ferdinando Caschili
Lungi da me presumere di poter dire qualcosa di particolarmente originale rispetto ad un testo, come il capitolo 15mo di San Luca, offerto alla nostra meditazione in questa 24ma Domenica del Tempo Ordinario, che per notorietà e vastità di commenti occuperebbe certamente i primi posti di un’ipotetica top ten evangelica.
Tuo fratello era morto.
Scelgo, inizialmente, un diverso percorso, andando a rintracciare qualche testo scritturistico sulla misericordia divina, di cui il brano odierno è magnifica realizzazione ed ostensione.
Durante il tempo della Quaresima siamo costantemente richiamati al desiderio di Dio circa la salvezza dell’empio: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (cfr Ez 33,11);
il profeta Osea ci dà la struggente rappresentazione di un padre che moltiplica i suoi atteggiamenti affettuosi nei confronti di un figlio riottoso poiché «il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira» (11, 8-9).
Nel libro della Sapienza, leggiamo: «Signore, tu hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento» (11, 23); «inoltre hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza perché tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi» (12,19).
Una Colletta domenicale afferma che Dio «rivela la sua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono» (26ma T. O).
Dietro questi testi c’è un aspetto col quale facciamo fatica a confrontarci: il fatto che Dio palpiti, frema, si prenda realmente cura della nostra vita (cfr 1Pt 5,7), mentre forse, continuiamo a pensare al Dio asetticamente chiuso nella sua realtà.
Tuo fratello era morto.
Il Vangelo odierno è costituito da tre parabole celeberrime: la pecora perduta, la dracma smarrita e il testo dei due figli.
Tutte sono attraversate dalla tensione dell’attesa che si scioglie in un tripudio di gioia al ritrovamento di quanto perduto. «Rallegratevi con me» è il ritornello che attraversa i primi due racconti; mentre la parabola dei due figli è attraversata dalla richiesta accorata del padre: «facciamo festa».
Tuo fratello era morto.
Non rientra nel nostro comune sentire il fatto che l’uomo possa far gioire Dio e sia invitato a fare festa con Lui; eppure è proprio questa l’idea che Gesù, attraverso queste parabole, vuole comunicarci.
Soprattutto nella terza mi piace immaginare con quale fremito il Padre pronunci la parola «figlio», tanto nei confronti di colui che ha sbattuto la porta di casa andandosene quanto nei confronti di colui che in casa è sempre rimasto: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»; «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo».
Tuo fratello era morto.
Se il figlio più giovane ha scambiato l’autonomia dal padre per la vera libertà, ritrovandosi poi realmente schiavo, il figlio maggiore non ha colto che nella condivisione del padre c’era tutto lo spazio della sua libertà e la sua dignità di figlio.
Per entrambi, e lo siamo tutti noi, la tenera, misericordiosa voce del Padre che continua a dirci: «Figlio!».
Sempre.
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