In 50 anni è cresciuto esponenzialmente il numero degli astenuti al voto
Chiuse le urne e assodata la vittoria di Giorgia Meloni e del Centro destra, è possibile dare uno sguardo ai risultati a livello nazionale.
I dati indicano che la coalizione di centrodestra ha ottenuto il 44 per cento di voti, 7 punti percentuale in più rispetto al 2018.
Fratelli d’Italia si è imposto come primo partito del Paese con oltre 26 per cento, mentre Lega e Forza Italia sono rispettivamente al 9 e all’8 per cento.
La coalizione di centrosinistra ha chiuso al 26 per cento dei voti.
Il Partito democratico ha raccolto il 19 per cento dei voti, un dato poco al di sopra del 18,7 per cento delle elezioni del 2018, e il peggiore della sua storia.
Fra gli altri componenti della coalizione, Sinistra Italiana e i Verdi hanno superato la soglia di sbarramento del 3 per cento raggiungendo il 3,63, mentre il partito di Emma Bonino +Europa è fermo al 2,83.
Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle raggiunge il 15,4 per cento dei consensi.
Non coalizzati e sotto la soglia di sbarramento Italexit, Unione popolare con De Magistris e Italia sovrana e popolare, rimasti al di sotto del 2%.
Nel giro di cinque anni sono dunque mutate in maniera molto rapida le scelte dell’elettorato.
«Nel 2018 Fratelli d’Italia – scrive Stefano De Martis su Agensir – aveva il 4,3% dei suffragi, la Lega il 17,4 (e nelle europee del 2019 era arrivata al 34,3%), Forza Italia il 14%, il M5S il 32,7%. Azione non esisteva, stabile invece il Pd che aveva il 18,7».
C’è però un dato messo da parte troppo frettolosamente dagli analisti: un terzo degli aventi diritto non si è recato alle urne.
È andato a votare il 63,91% degli aventi diritto. In altre parole più di un elettore su tre non ha votato.
«Se si calcolassero le percentuali sull’intero corpo elettorale – ricorda ancora De Martis – il partito di gran lunga più votato (FdI) sarebbe intorno al 14% e il secondo (il Pd) al 10%. La coalizione vincente, che pure ha il diritto di governare perché siamo in una democrazia rappresentativa, ha ricevuto i consensi di meno di un quarto dei potenziali elettori. E di questo non si può non tenere conto».
Una disaffezione alle urne.
Una disaffezione alle urne che nel 1972 registrava il 6,81 per cento, oggi è del 36,09 per cento: una crescita esponenziale in mezzo secolo. Dati che indicano una sorta di divorzio tra gli italiani e la politica, quest’ultima evidentemente incapace di cogliere le esigenze della gente.
C’è però un elemento in più: lo segnala Nando Pagnoncelli, ricercatore sociale e presidente dell’Istituto Ipsos, sulle pagine di «Avvenire».
«La lettera della Cei e i messaggi del Papa – ha dichiarato Pagnoncelli – hanno inquadrato perfettamente il problema: il rapporto con la politica è figlio dello scisma tra “io” e “noi”, della crescente asimmetria, largamente diffusa, tra diritti e doveri. Non crediamo più in qualcosa né in qualcuno che trascenda l’immediato bisogno personale e alla politica chiediamo di rispondere a quel bisogno».
Una disaffezione alle urne.
«Fatalmente, la politica non ce la fa e di volta in volta genera ondate di scontenti che travolgono la maggioranza in carica».
«Si tratta – prosegue ancora Pagnoncelli – di un atteggiamento, che non riguarda solo i cittadini ma anche le realtà associative, come i corpi intermedi, che spesso hanno ormai un rapporto strumentale con la politica».
«Questo dipende da una asimmetria tra la dimensione individuale e quella collettiva, che falsa la valutazione della politica: se ci interessasse il bene comune, i nostri parametri valutativi non sarebbero curvati sul bilancio tra ciò che mi aspettavo dalla politica e quello che è migliorato nella mia vita».
«La politica – ha concluso Pagnoncelli – non riesce a soddisfare tutti i bisogni personali e ci rifugiamo nella dimensione individuale, ritrovandoci perennemente insoddisfatti».
Roberto Comparetti
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