«Io accolgo te come mio sposo/mia sposa»: sono le parole che costituiscono gli sposi come tali, segnano il passaggio da un «non essere» uniti nel vincolo matrimoniale a essere una caro. Esse, così semplici, contengono in realtà una grande ricchezza di significati.Fermiamo la nostra attenzione su quattro elementi: Io/Accolgo/Te/Come mio sposo. Potremmo parlare di una teologia dell’accoglienza che esse veicolano: così potremmo definire l’universo di significati legati all’Accogliere. Cosa è la teologia dell’accoglienza? Diciamo subito che è più semplice definire cosa essa non è piuttosto che quello che è. Accogliere non è soltanto ricevere, prendere con sé, portare, prendersi cura del proprio partner. Non significa solo accoglierlo nella sua originalità e bellezza, anche con la coscienza sincera di valorizzare qualcosa di prezioso che mi è stato posto accanto perché la mia vita sia segnata e arricchita da questa presenza. Tantomeno è accogliere una persona che «mi farà compagnia», come talvolta si sente dire, che «non mi lascerà sola», o anche colui/colei con cui «passerò il resto della vita». Io accolgo te: è una relazione che viene ratificata, tra un Io e un Tu, che si pongono accanto e insieme per la vita. Io e Tu: due persone concrete e diverse che si sono scelte, desiderate, conosciute, amate, che si uniscono per un progetto che riconoscono vero e bello davanti a Dio, anzi, pensato da Dio su loro due. Ed essi ora, pronunciando quella formula, prendono atto di esso e lo ratificano con gesti che, in sintonia con le parole, lo fanno diventare realtà. Perché questo è la realtà sacramentale: una storia che ha i due sposi come protagonisti e che, attraverso gesti e parole diviene, nel nome del grande sacramento che è Cristo, a sua volta sacramento del loro amore. E di questa nuova realtà essi sono gli «artefici», i ministri: sono gli sposi che, grazie a queste parole che divengono evento, trasformano la loro storia insieme in storia di salvezza.
Accogliere è allora vedere nell’altro il Volto di Dio che si fa carne per me nel mio compagno/a, per la mia vita: quel compagno/a che mi fronteggia e insieme è al mio fianco, come ben ricorda l’espressione ebraica di Genesi 2,18 resa con «un aiuto che gli sia simile». Accogliere significa porre la scelta su quella persona e non un’altra, perché nessun’altra potrà mai essere come quella per me. È un accogliere «per me», è un «vedere» l’altro/a come è, nel suo oggi, ma anche come «sarà», nel suo domani, nella potenzialità e nelle risorse che già intravvedo in lui/lei e che si esprimeranno solo in futuro. Il fatto che io le veda già oggi è una facoltà in più che è data al mio sguardo umano dall’amore che nutro, una sorta di occhio più lungo e più acuto che riesce a varcare i tempi e vedere «oltre».
Accogliere è quindi disporsi a conoscere l’altro/a nella sua originalità, nella sua preziosità, in ciò che completa ma anche in ciò che si oppone a quello che sono io. E quindi comporta la fatica di un amore che non si lascia trasportare dalla logica della noia, della impazienza, della non accettazione, ma davvero «tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (cfr. 1Cor 13,7).
Rita Lai
© Copyright Il Portico