Dio ha mandato il Figlio suo perché il mondo sia salvato Festa della SS. Trinità (Anno A)

Dal Vangelo secondo Giovanni

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

(Gv 3, 16-18)

Commento a cura di Davide Meloni

Per gustare la bellezza del Vangelo di oggi è importante soffermare l’attenzione sulla persona a cui Gesù sta parlando.

Si tratta di Nicodemo, fariseo e membro del Sinedrio che, rimasto colpito da Gesù, si reca di notte a parlare con lui.

Su questo personaggio si è detto tanto: che andando di notte da Gesù si sia comportato da vigliacco, che sia stato in realtà un fedele discepolo di Gesù anche dopo la sua morte e risurrezione, e tanto altro.

A lui è attribuito anche un vangelo apocrifo e il romanziere Jan Dobraczynski gli ha addirittura dedicato un bel romanzo.

Quel che possiamo dire con certezza è che dal botta e risposta che troviamo nel Vangelo di Giovanni emerge in Nicodemo un desiderio autentico, anche se ancora confuso, di conoscere Gesù, e allo stesso tempo una certa durezza di cuore che lo fa rimanere attaccato a quel che sa già e a quel che crede di aver capito.

Ecco perché Nicodemo siamo noi, così spesso in bilico tra il desiderio di buttarci tra le braccia di Cristo e la difficoltà a metterci davvero in gioco nel rapporto con lui.

Alla reticenza di Nicodemo Gesù risponde portando la questione a un livello molto più profondo di quanto il suo interlocutore si sarebbe aspettato. Gesù fa capire infatti che non si tratta di sapere qualcosa di corretto su Gesù (Nicodemo aveva cominciato dicendo: «Maestro noi sappiamo che si venuto da Dio…»), ma di credere, cioè di poggiare tutta la propria vita su di lui e sulla novità che è venuto a portare.

Non un contenuto nuovo da apprendere e fare proprio, ma una vita nuova in cui entrare.

La vita nuova è Cristo stesso, l’amore di Dio fatto carne: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».

Chi si imbatte in Cristo e lo segue fa esperienza di una vita divina, e quindi infinitamente più umana, già qui sulla terra, e comincia a sperimentare che Dio non è colui che condanna, ma colui che ama, perdona e salva.

Ecco perché la Chiesa ci propone questo Vangelo proprio nella domenica della SS. Trinità.

Dire che Dio è uno e trino significa infatti affermare che Dio è una comunione di persone, cioè che è in se stesso amore.

Non solo ama, ma è amore, come dirà Giovanni nella sua prima lettera (cfr. 1 Gv 4,16).

È il vertice della Rivelazione, la verità più profonda e definitiva che si possa dire su Dio.

Se Dio non fosse in se stesso una comunione di persone ci troveremmo davanti all’immagine inquietante di una divinità “solitaria” che avrebbe avuto bisogno di creare il mondo, e l’uomo in esso, per amare qualcuno.

Affermare che Dio è comunione significa anche parlare dell’altissima vocazione dell’uomo, chiamato a vivere l’amicizia con Dio e ad imitarlo instaurando con i fratelli un tipo di relazione che sia riverbero della vita stessa di Dio.

In altre parole, Dio è comunione e l’uomo, fatto a immagine di Dio, è veramente se stesso, e quindi felice, quando vive la comunione con Dio e con gli altri. Semplice ma rivoluzionario.

Parlare di Dio come Trinità, amore, comunione di persone getta inoltre una luce anche sul mistero della creazione, perché fa capire che tutta la realtà è creata dall’amore, che noi stessi in questo istante siamo fatti da un Dio che è amore e che alla fine della nostra vita saremmo giudicati da un Dio che è solo amore, ben diverso da quel Dio permaloso e vendicativo che tante volte abbiamo in testa.

Naturalmente rimane intatto il mistero, qualcosa che la nostra ragione non riesce a dominare.

Ma occorre anche ricordare che quando parliamo di mistero non ci riferiamo a qualcosa che non si può comprendere, ma piuttosto a qualcosa che non si è mai finito di comprendere.

Così vanno sempre intesi i dogmi della Chiesa, non come una prigione in cui la nostra ragione viene rinchiusa, ma come una strada affascinante che viene aperta davanti a noi e che non abbiamo mai finito di percorrere.

RIPRODUZIONE RISERVATA
© Copyright Il Portico