II Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio.
Da questo numero sarà don Raimondo Mameli, rettore della chiesa di sant’Agostino a Cagliari, a commentare il Vangelo.
Il grazie a don Luigi Castangia per il servizio reso nelle ultime settimane.
Commento a cura di don Raimondo Mameli
«Arde il nostro cuore» (Lc 24,32) mentre il buon Dio ci parla attraverso questa pagina evangelica.
Parola di Dio è la persona divina di Nostro Signore Gesù Cristo, Dio fatto uomo, perché “In principio era il Verbo e il Verbo era Dio” (cfr. Gv 1,1) e «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
L’amore, la vita, la verità, la bellezza, la bontà e la giustizia si son fatte carne, e Dio è un Dio vicino che non sta imperturbabile in un iperuranio platonico, ma ci ama di un amore intramontabile.
Dio mostra la sua tenerezza nei nostri confronti e ci chiede di amarlo «con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22,35).
Cristo viene verso di noi per usarci misericordia, mosso da compassione per tutte le sofferenze umane; l’ariete immolato sul monte Moriah, come sacrificio sostitutivo al posto di Isacco, è una prefigurazione del sacrificio di Cristo, mandato dal Padre «come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10).
In Lui, «via, verità e vita» (cfr. Gv 14,6), che ci riaperse la strada del cielo, riconosciamo, col Dante della «Divina Commedia», «l’Agnel di Dio che le peccata tolle» (Paradiso XVII, 33).
Egli è il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello (Is 53,7; Ger 11,19) e porta il peccato delle moltitudini (Is 53,12), e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione (cfr. Gv 19,36; 1Cor 5,7).
Cristo, «nostro pellicano» (Paradiso XXV, 113), risuscita i suoi piccoli per mezzo del battesimo e li nutre, nel sacro convito, col suo sangue prezioso, sgorgato dal suo petto; la sua missione è quella di «servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10,45)» e questo è il senso del “togliere” i peccati del mondo.
Ma cosa significa «togliere»?
San Giovanni usa il verbo αίρω (portare, prendere su di sé), e San Girolamo traduce «ecce agnus Dei qui tollit peccatum mundi».
Cristo «toglie» i peccati del mondo non già con una rimozione indolore, ma caricandoli sulle sue spalle, prendendoli su di sé ed annientandoli con un atto perfettissimo d’amore e di obbedienza.
Egli porta il peso del peccato, è tradito, umiliato, percosso e crocifisso; questo fardello da portare, il cui potere di morte dovrà essere distrutto, vede il suo compimento nel mistero pasquale.
La Santa Messa, ossia il santo sacrificio del calvario reso presente in maniera incruenta sull’altare, ci riporta misticamente alle tre del pomeriggio sul Golgota, mentre Cristo si immola per la salvezza del mondo.
Dopo la consacrazione, non ci sono più pane e vino, ma il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo, e, adorando Cristo realmente presente nel Santissimo Sacramento, dobbiamo dire con Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 21,28).
San Giovanni ha prestato la sua voce all’annuncio della Parola di Dio, esercitando il suo ruolo in funzione di Cristo.
Il filosofo e teologo russo Solov’ëv, ne «Il Racconto dell’anticristo», metteva in guardia da una falsa spiritualità irenica che non riconosca nel Signore Gesù Cristo, in cui «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2, 9), l’unico redentore dell’umanità.
L’avvenimento cristiano non può essere relativizzato, e noi possiamo dirci davvero cristiani soltanto nella misura in cui abbiamo un incontro personale con Cristo risorto, ci facciamo abitare da Lui, lo riconosciamo, vi aderiamo e ci lasciamo trasformare, evitando di ridurre il Cristianesimo e il fatto salvifico ad un insieme di valori condivisibili che metta tra parentesi Gesù con la sua Croce e Risurrezione.
Ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio.
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