XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Il padrone sdegnato lo diede in mano agli aguzzini.
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.
Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti.
Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito.
Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.
Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”.
Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto.
Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.
Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Da questo numero sarà don Roberto Piredda, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale scolastica, a commentare il Vangelo. Grazie a suor Francesca Diana per il servizio reso fino alla pausa estiva.
Commento a cura di Roberto Piredda
Un passaggio della preghiera del «Padre nostro» coglie l’essenziale del messaggio della parabola del re misericordioso e del servo spietato: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
La relazione con Dio passa attraverso la misericordia offerta ai fratelli, non c’è un’altra strada.
Nella domanda iniziale di Pietro prevale ancora una logica umana, quella di un perdono magari generoso, ma comunque con un limite da fissare, oltre il quale non è necessario andare. Gesù rovescia questa logica, decisamente troppo terrena, per proporre un salto di qualità.
Nella parabola tutto parte da un dono, gratuito e immeritato.
È il caso del re che condona al servo un debito impossibile e spropositato: diecimila talenti.
Il perdono non è legato ai meriti del servo, ma alla grandezza d’animo del padrone.
La risposta di Dio va sempre oltre le aspettative, non si ferma al mero calcolo del «giusto» e del «ragionevole».
Ora c’è un nuovo «debito» del servo nei confronti del padrone, quello della gratitudine e della riconoscenza per la misericordia ricevuta.
Il «comando» di amare e perdonare il prossimo ha origine da un dono di Dio, che sempre ci precede.
Non si tratta, quindi, «di un “comandamento” dall’esterno che ci impone l’impossibile, bensì di un’esperienza dell’amore donata dall’interno, un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri» (Benedetto XVI, «Deus caritas est», n. 18).
Il comportamento del servo va però nella direzione opposta, si lascia vincere dalla durezza d’animo e dalla chiusura di cuore.
La lezione della misericordia ricevuta dal padrone non sembra aver lasciato alcuna traccia in lui.
Davanti ad un compagno che gli doveva cento denari, una cifra nettamente più abbordabile rispetto al suo debito iniziale, il servo si dimostra implacabile nella sua richiesta di saldare il debito.
Una volta che ci si dimentica di essere stati amati e perdonati per primi si finisce per restare prigionieri di una rigida giustizia umana.
Il servo non ha preso realmente coscienza del perdono ricevuto.
Il condono allora non produce risultati ed egli va in carcere, non per la durezza del padrone, ma per la propria.
Per entrare in una logica davvero evangelica è necessario che la memoria viva e grata del perdono ricevuto trasformi le relazioni, facendo percepire l’offesa del fratello come parte di un debito immenso già condonato dalla misericordia di Dio, che è senza confini.
Il padrone sdegnato lo diede in mano agli aguzzini.
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