La mediazione culturale è un aspetto cardine nell’affrontare il tema delle migrazioni. Il senegalese Dominique Senè, 35 anni, è uno dei mediatori culturali della Caritas di Cagliari.
Ti occupi per la Caritas della mediazione culturale: in cosa consiste precisamente il tuo lavoro?
Cerco di aiutare i ragazzi che arrivano e che non parlano l’italiano, spiegandogli alcune cose riguardo quel che si fa qui in Italia. Per esempio le regole, come comportarsi con gli altri. Questi ragazzi, come arrivano a Cagliari, vengono inseriti nei centri di accoglienza: io lavoro sia là che nel Centro d’ascolto per stranieri della Caritas.
Quando queste persone arrivano al Centro d’ascolto, cosa ti chiedono? Cosa vogliono sapere? Qual è la loro situazione?
I bisogni sono diversi per chi arriva al centro d’ascolto rispetto a chi è inserito nei centri di accoglienza. Questi ultimi, per esempio, non devono preoccuparsi di dove dormire o mangiare, visto che sono già seguiti. In questo caso la mediazione c’è solo quando bisogna accompagnarli in un altro posto, spiegandogli come comportarsi e tutto quello che dobbiamo fare. Se andiamo negli uffici, ci occupiamo di far loro le domande e di tradurre le risposte ai vari impiegati. Nel centro d’ascolto, invece, in alcuni casi si ha a che fare con persone in difficoltà: chi ha perso o chi non ha mai trovato un impiego, oppure persone uscite dal centro di accoglienza che cercano un posto dove dormire, altri che hanno difficoltà con il permesso di soggiorno e questioni burocratiche oppure che non riescono a pagare l’affitto o le bollette.
Ti sei fatto un’idea del perché così tante persone stiano abbandonando il tuo continente?
Non è semplice dare una spiegazione. Bisogna sempre scindere i casi di emigrazione forzata da quella volontaria, dove è la scelta del singolo a portarlo a lasciare il proprio paese. Nel primo caso, invece, si parla di una «scelta obbligata», dove la persona deve lasciare casa sua perché là rischia di morire o essere maltrattata: sono tanti gli esempi di chi stava benissimo nel proprio paese, avendo casa e lavoro, costretto però a doversene andare per i motivi che dicevamo prima. A chi dice «aiutiamoli a casa loro» rispondo: in alcuni casi si può, ma non sempre. Chi emigra per motivi economici è in una diversa posizione rispetto a chi lo fa per fuggire da qualcosa, e si sposta in un paese dove poter trovare almeno la libertà.
Tu sei tornato in Sardegna dopo un primo periodo passato qui. Vuol dire che non ti trovi poi così tanto male?
Giusto, mi trovo benissimo perché quando sei in un paese dove la gente ti vuole bene e ti trovi in pace non hai bisogno di tanto altro. Neanche a casa mia ho tutto quel che voglio, figurarsi se me lo aspetto in Sardegna. L’importante è il rispetto delle regole e quello alla persona, perché ogni nazione ha i suoi usi e costumi e bisogna accettarlo. L’integrazione passa per l’accettazione delle persone e del loro modo di comportarsi, coniugando la tua cultura e quella del paese che ti ospita. Molti di quelli che arrivano qui per la prima volta si sentono «isolati», perché non possono parlare la lingua, perché ci sono nuovi modi di vivere. Ognuno di loro ha una sua storia, ognuno ha bisogno di parlare: così il mediatore capisce come aiutarli, insieme ai responsabili dei centri. Ci sono casi di persone che hanno bisogno di essere seguite: facciamo di tutto perché ciò accada, facendo capire che qui sono al sicuro, così che possano rilassarsi e avere fiducia.
Francesco Aresu
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