Per ben sedici volte, nella preghiera finale della «Via Crucis» al Colosseo, Francesco ha indicato altrettante tipologie di dolori e di piaghe dell’umanità, invitando tutti ad avere occhi per vedere la Croce di Cristo in ciascuna di esse.
La stragrande maggioranza degli organi di informazione ne ha riportato una o al massimo due: su tutte quella dei migranti.
Così una supplica che invitava a guardare ai mali del mondo è diventata, per tanti, compresi molti credenti, un presunto manifesto «politico» del Papa.
Eppure oltre che sulla croce del fenomeno migratorio Francesco ha chiesto di aprire gli occhi anche sulle altre: gli abusi sui minori, le tragedie personali e familiari, l’ecologia e persino sulle lacerazioni nella Chiesa.
Tutto questo era presente nell’invocazione che il Vescovo di Roma ha lanciato al mondo dal colle Palatino, nella serata del Venerdì Santo.
Il Papa ci ha chiesto di aprire gli occhi sulle piaghe del mondo, anche sulla crudeltà del fanatismo, che nel giorno di Pasqua, ha armato la mano degli assassini in Sri Lanka: Francesco ha chiesto di pregare sulle croci delle vittime e per il dolore dei loro familiari.
Ma c’è chi, ostinatamente, ha voluto continuare a denigrare le parole pronunciate dal Santo Padre nel corso della benedizione «Urbi et Orbi».
Francesco ha ricordato «la croce delle famiglie spezzate dal tradimento, dalle seduzioni del maligno o dall’omicida leggerezza e dall’egoismo; la croce dei consacrati che cercano instancabilmente di portare la Tua luce nel mondo e si sentono rifiutati, derisi e umiliati; e di quelli che, strada facendo, hanno dimenticato il loro primo amore». La croce di quanti «si trovano emarginati e scartati perfino dai loro familiari e dai loro coetanei».
Ancora le croci «delle nostre debolezze, ipocrisie, tradimenti, peccati e delle nostre numerose promesse infrante; della Tua Chiesa che, fedele al Tuo Vangelo, fatica a portare il Tuo amore perfino tra gli stessi battezzati; della Chiesa, la Tua sposa, che si sente assalita continuamente dall’interno e dall’esterno; della nostra casa comune che appassisce seriamente sotto i nostri occhi egoistici e accecati dall’avidità e dal potere».
Di questi passaggi scarsa o nulla la ribalta mediatica, e quindi non esistono, perché non raccontati.
Allora è necessario non fermarsi al titolo del giornale o a quelli che scorrono nella parte bassa dello schermo televisivo. Occorre andare al di là e leggere con più attenzione ciò che il titolo annuncia.
Nel corso della «Via Crucis» al Colosseo, le meditazioni di suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata e presidente dell’Associazione «Slaves no more», in prima fila contro la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale, hanno donato speranza, espressa da moderni cirenei che hanno portato la croce: la canossiana suor Josephine Sim e Patricia Ogiefa, con la figlia Cristian, entrambe nigeriane, oppure suor Rita Giaretta e Ezekiel Joy della «Casa Rut» di Caserta, un centro di accoglienza delle Orsoline del Sacro Cuore di Maria, che ospita giovani donne migranti, sole o con figli, in situazioni di difficoltà o sfruttamento, o ancora la missionaria della Consolata, suor Anelia Gomez da Paiva, con Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire».
Al termine della «Via Crucis», la croce è approdata sulla terrazza di fronte al Colosseo: qui il Papa ha pregato a nome di tutti, chiedendo di riconoscere le croci del mondo.
Quella croce che ormai non è più simbolo di morte, ma preludio di risurrezione, celebrata nel giorno di Pasqua, quando Cristo ha vinto la morte, liberando così l’uomo.
Roberto Comparetti
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