«ClassicalParco 2021» prosegue in piazza Nazzari con un apprezzabile «Le Villi» di Puccini, per la prima volta a Cagliari.
Serviva un tocco di freschezza nella canicola delle serate cagliaritane, e il Teatro Lirico lo cerca in un dramma d’amore dalle atmosfere nordiche, asettiche, glaciali, che nella distanza scenografica trova il mezzo di allontanare per un istante il pubblico dalla quotidianità e trasportarlo in una dimensione quasi fiabesca sospesa nel tempo.
Il senso di alterità che ne deriva soddisfa la ricerca di refrigerio degli spettatori, che premiano l’allestimento tutto cagliaritano de Le Villi di Giacomo Puccini con un sonoro apprezzamento a suggello del secondo, breve appuntamento operistico della ministagione estiva.
Non solo la ridotta durata dello spettacolo (due rapidi atti in neanche un’oretta e mezzo di tempo), ma lo stesso titolo in cartellone sono sintomo, per così dire, di freschezza: è il primo approccio del genio di Lucca al mondo dell’opera, che, nonostante il fallimento al primo concorso Sonzogno, in cui manovre editoriali non gli assicurano nemmeno una menzione d’onore, trova il contraddittorio plauso dei contemporanei, divisi nella valutazione della fantasia immaginifica che guida melodie e orchestrazione in un prodotto di fortissimo impatto sinfonico.
Sul piccolo palco di piazza Nazzari si muovono, così, il trio, davvero essenziale, dei protagonisti (Anna, Roberto, Guglielmo) e il corpo di ballo che, oltre a essere parte integrante della rappresentazione, di per sé piccolo grand-opéra prêt-à-porter, costituisce l’incarnazione tangibile delle voci del coro, sospese a mezz’aria per il sacrificante immobilismo imposto ai coristi, ancora imprigionati nelle capsule di plexiglas posizionate sulla pedana a lato del palcoscenico.
La distanza che separa i mondi affettivi dei protagonisti – Anna, profondamente innamorata, pur nel presagio di una fine funesta;
Roberto, fatuo, quasi superficiale, pronto a farsi ammaliare da una lucciola – si avverte anche nella scenografia di Danilo Coppola e nelle luci di Emiliano Pascucci: la geografia d’ispirazione nordica si traduce in uno spazio buio, giocato sulle tonalità di grigio, con sagome scheletrite di alberi d’altura che fanno da sfondo al cumulo di pietre al centro, preludio della tormentata sepoltura di Anna.
Non per questo l’allestimento, che segna il debutto a Cagliari dell’opera pucciniana giovanile, può dirsi congelato.
Proprio nel movimento agiscono le Villi, moderne erinni nordiche che vendicano la propria delusione d’amore stringendo l’amante traditore in una mortale danza vorticosa.
Così, guidato dalla parola chiave moto, Renato Bonajuto (regia) trasforma il palco in una piattaforma sopraelevata rotante che fa del vortice dei movimenti scenici l’elemento attorno al quale si gioca il duplice capovolgimento degli amanti da carnefice a vittima, Roberto, e da vittima a carnefice, Anna.
Non c’è bisogno che il corteo di Villi, curato da Luigia Frattaroli (coreografia), si sbracci sgraziato, come menadi di greca memoria: piuttosto, sono sirene, pronte a stringere la vittima inconsapevole nella grazia stordente delle loro mosse e della loro parvenza fisica, esaltata dall’innocente candore dei costumi di Marco Nateri, bianco come l’amore innocente che le scaldava da vive, bianco come il gelo che ora le muove inquiete.
A Giuseppe Grazioli (maestro concertatore e direttore) è affidato il compito di unire i moti dei personaggi al fluire inesorabile della musica, e gli riesce egregiamente.
Una gestualità ora ampia ed elegante, ora veemente ed energica traduce visivamente la dicotomia sonora della partitura, ispiratrice e sognante, con allusioni francesi e anticipazioni mascagnane, nella prima parte, più tragica e dolente nella seconda.
L’orchestra non sovrasta quasi mai le voci dei cantanti, impegnati nello sforzo vocale di notevole portata dato da salti di registro di difficile realizzazione, da acuti e sovracuti senza preparazione e da una lunga insistenza nel registro acuto che può affaticare la credibilità della recitazione.
Lo sa bene Raffaele Abete, tenore chiaro e brillante, la cui costante preoccupazione tecnica di affrontare lodevolmente i lunghi soggiorni in acuto indebolisce l’efficacia della radicale trasformazione di Roberto nell’amante pentito invaso dal rimorso e dal terrore.
Per il baritono Andrea Borghini è comoda la parte di Guglielmo, padre sempliciotto che invoca vendetta per la figlia abbandonata, perlopiù costruita sul centro e sull’acuto, con rarissime carezze nel grave che comportano qualche difficoltà.
Ma è l’Anna di Monica Zanettin a conquistare il pieno favore del pubblico: il colore scuro della tessitura sopranile dona fascino e strazio al suo sentimento, affrontato con tecnica ineccepibile tanto in acuto quanto in petto, fino al mutamento del tenero amore nel glaciale desiderio di vendetta che punta il dito contro l’amante infedele, fino ad annientarlo.
Alessio Faedda
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