«Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis»: un latino facile, che sembra normale tradurre in italiano con le parole che ripetiamo nella Messa: «pace in terra agli uomini di buona volontà!».
A monte del testo latino però, come ben sappiamo, c’è il testo greco, la lingua in cui sono stati scritti i vangeli, dove il canto degli angeli a Betlemme annuncia pace «agli uomini della benevolenza misericordiosa» cioè gli uomini a cui Dio rivolge, con la nascita di Gesù, la sua benevolenza misericordiosa. E questa è la traduzione che troviamo nelle Bibbie italiane dell’ultimo secolo.
Ma anche una famosa traduzione italiana, fatta due secoli e mezzo fa dalla Vulgata, cioè dal latino, ad opera di monsignor Antonio Martini, arcivescovo di Firenze, legge nel testo latino «bonae voluntatis» il medesimo significato, citando il commento di vari Padri della Chiesa.
La buona volontà è quella di Dio, che ci dona il suo Figlio e che attende di essere accolta per portare il dono della salvezza. Abbiamo dunque buoni motivi per prepararci ad accogliere nella Messa la traduzione comune presente nelle Bibbie italiane: «Pace in terra agli uomini amati dal Signore». Nel frattempo, e questo forse è il fattore decisivo che spinge a portare nella liturgia la traduzione già presente nelle Bibbie, la festa del Natale si è trasformata in modo impressionante.
Colpa del benessere consumista, ma anche di un modo curioso di vivere la secolarizzazione e il laicismo individualista che domina la nostra cultura: nonostante tutto nessuno vuole rinunciare alla poesia o alla «magia» del Natale.
Così la Festa si è man mano staccata dalla sua origine, fino a cancellare il nome e l’immagine di Gesù Bambino, ed è diventata la festa dei regali ma anche – meno male – di tanti gesti di bontà e di carità: la festa della buona volontà, che però alla fine non ha più bisogno di un riferimento a Gesù e alla fede in Lui.
Natale festa della buona volontà: una conquista o un rischio? Non c’è dubbio che si tratta di un rischio sottile, un modo soft per staccare la Festa dalla sua origine e dalla sua vera e unica motivazione. In un passato anche recente, sotto vari regimi dittatoriali, il giorno di Natale era un giorno lavorativo come gli altri e molti cristiani eroici lo hanno celebrato con le lacrime agli occhi di nascosto e a rischio di ritorsioni.
Anche oggi non mancano paesi in cui la festa di Natale non esiste. Modi spicci e diretti per cercare di cancellarlo. Il rischio che noi corriamo, nella nostra società occidentale, è decisamente più insidioso, perché salva la cornice esteriore ma elimina, con vari pretesti e in modo progressivo, ogni riferimento a Gesù nato a Betlemme dalla Vergine Maria, in un momento preciso della storia.
Ne ho fatto anch’io più volte l’ esperienza diretta, ad esempio in qualche scuola dell’infanzia (non mi riferisco a Cagliari), dove provando a parlare con i bambini della festa che stavano preparando e degli addobbi che riempivano la stanza ho potuto ascoltare le risposte più incredibili.
Non basterà certo cantare «pace in terra agli uomini amati dal Signore» per arrestare la deriva che svuota il senso del Natale, ma almeno cercheremo di non contribuire ad una «festa della buona volontà» che non solo dimentica il Festeggiato ma insinua l’idea che non abbiamo bisogno di Lui, poiché basta la nostra buona volontà.
Un errore fondamentale, che più volte lungo i secoli la Chiesa ha dovuto combattere. A ben pensarci, la tendenza a far sparire il presepio nasce anche di qua.
Nel presepio troviamo persone umili, compresi i due animali della Santa Grotta, creature tutte che attendono una Salvezza più grande, perché hanno spesso sperimentato la fragilità dell’umana buona volontà, quando esiste!
Arrigo Miglio – Vescovo
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