Radicale, collettivizzante, umanitario. Sono i tre elementi che secondo Marina Casini, presidente del Movimento per la Vita, caratterizzano le linee di indirizzo del Ministero della Salute del 12/08/2020.
Un documento che di fatto eliminato la necessità del ricovero per la donna che assume la RU486, che prevede l’assunzione della «pillola abortiva» anche nei consultori, e che ha esteso la possibilità di ricorrervi fino alla nona settimana di gestazione. Sullo sfondo si intravvede, secondo la Casini, la banalizzazione e la privatizzazione dell’aborto. «Ho l’impressione – dice – che con troppa disinvoltura si corra il rischio di rifugiarsi nella legge 194 per respingere le linee di indirizzo, contrapponendo le disposizioni ministeriali del 2020 e le disposizioni legislative della 194 e schierandosi dalla parte di queste ultime».
Per la responsabile del Movimento per la Vita occorre «mettere in campo un formale contrasto con alcuni passaggi della 194 ma bisogna evitare il pericolo di irrobustire – attraverso il rifiuto dell’aborto farmacologico – l’accettazione della legge 194». «Certamente – specifica – nella 194 ci sono degli agganci per mettere un freno alla deriva della banalizzazione e della privatizzazione dell’aborto, ma la legge 194 resta iniqua integralmente, e integralmente vuol dire in ogni sua parte».
Nella legge 194 coabitano tre filoni ideologici: quello «radicale», quello «collettivizzante», quello «umanitario».
Il primo cancella il concepito come essere umano e ritiene l’aborto una questione di esclusiva autodeterminazione femminile. Il bene protetto è la libertà individuale. Il profilo radicale è presente in maniera subdola nella disciplina dell’aborto nei primi tre mesi di gestazione.
La Corte di Cassazione nella sentenza 14979 del 2013, a proposito della legge 194, ha detto che «il diritto di aborto è stato riconosciuto come ricompreso nella sfera di autodeterminazione della donna». Inoltre la Consulta ha anche affermato che «se desidero il figlio e non arriva, posso ottenerlo a ogni costo, anche col patrimonio genetico di soggetti estranei ai genitori giuridici, aggiunge per conseguenza – neanche tanto implicita – che se il figlio arriva senza che io lo desideri posso eliminarlo in quanto contrasta con quella autodeterminazione».
Il secondo profilo, secondo Marina Casini, è indifferente e agnostico rispetto al concepito, e ritiene l’aborto una questione sanitaria. Il bene protetto è la salute della donna, perciò lo Stato deve farsi carico dell’effettuazione degli aborti per evitare che la donna si rivolga altrove o faccia da sé, esponendosi a rischi.
Il terzo profilo, quello umanitario, secondo Casini, considera l’aborto un trauma, per evitare il quale il sistema socio sanitario prende in carico la condizione e le difficoltà della gestante, offrendole aiuti e alternative attraverso il colloquio e una pausa di riflessione. Se ciò nonostante la donna non recede dall’inclinazione abortiva, in cambio della sua apertura è lo stesso Stato che le offre l’«intervento». Il bene protetto è la vita, ma in termini generici.
In sostanza, secondo la responsabile del Movimento per la Vita nessuno di questi filoni ideologici tutela la vita umana prima della nascita e la maternità durante la gravidanza. Il primo cancella il figlio, il secondo lo ignora, il terzo affronta il tema della vita nascente in chiave pseudo-assistenziale, senza verifica circa l’effettività dell’aiuto ipotizzato a favore della nascita.
Sulla questione nei giorni scorsi anche la Pontificia Accademia per la Vita si è espressa in maniera netta. «A restare ampiamente disattesa – si legge nelle nota – è rimasta la parte della legge 194 intorno alla quale poteva e potrebbe ancora essere cercata e alimentata un’idea di civiltà condivisa». «Parliamo – si legge ancora – dell’impegno a dare davvero alla donna (e alla coppia) tutto il sostegno possibile per prevenire l’aborto, superando quelle condizioni di disagio, anche economico, che possono rendere l’interruzione della gravidanza un evento più subìto che scelto, in quanto esito di circostanze avverse nelle quali diventa difficile o addirittura insostenibile l’idea di avere un figlio».
«Sono per molti versi – giova ricordarlo – le circostanze sociali e culturali che hanno spinto anche l’Italia, insieme ad altri paesi e più di altri, verso l’inverno demografico del quale ormai molti cominciano a vedere tutte le conseguenze. Il declino di una efficace azione dei consultori familiari evidenzia questo disimpegno, che tende in realtà a far gravare in modo sempre più pesante sulle spalle della (sola) donna l’onere di un gesto che lascia profonde tracce nella sua biografia».
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