Se l’indifferenza diventa abitudine

Le morti in mare sembrano non destare alcuna pietà

Un grido disperato: «I lose my baby!» (Ho perso mio figlio). A lanciarlo una giovanissima madre guineana che, dall’imbarcazione di salvataggio, cerca con lo sguardo angosciato il proprio figlio di sei mesi in mare, tra le onde del Mediterraneo.

Immagini e suoni che provocano un sussulto, toccano il cuore, ma lasciano indifferenti troppi, anestetizzati alla disperazione che quotidianamente giunge dal più grande cimitero del mondo: il Mare Nostrum.

In tanti continuano a voltare la faccia, a non provare alcun sentimento di pietà e di tristezza verso le centinaia di persone che muoiono nelle acque tra il Nord Africa e la civilissima Europa.

La disperazione di una madre che ha perso il proprio figlio dovrebbe suscitare empatia e partecipazione al dolore.

A leggere i commenti alle notizie in rete c’è di che sussultare invece per il livore e la mancanza di rispetto: vere e proprie invettive lanciate da chi sta seduto comodamente sul divano,  nei confronti di morti innocenti e madri disperate. Una tragedia nella tragedia.

Abbiamo perso il senso dell’umanità. Neanche i peggiori nemici tra le specie animali hanno un tale livello di bassezza.

A ricordarlo nei giorni scorsi il parroco di Lampedusa, don Carmelo La Magra. «La morte di questo piccolo – ha dichiarato – e il grido disperato della sua giovane mamma rappresentano un macigno sulla nostra cultura occidentale, ma se tutto si fermerà alla commozione di questi giorni avremo fallito un’altra volta».

«Questo bambino era nato in Libia – ha proseguito il parroco  – e come tanti suoi coetanei in diverse parti del mondo, non ha mai conosciuto la libertà, la pace. In altre parole non ha mai fatto il bambino, cioè non ha mai avuto la possibilità di vivere in un Paese dove i diritti dei più piccoli sono garantiti e sacri».

Una storia che dovrebbe scuotere le coscienze per cercare di cambiare una prospettiva che, al momento, sembra non voler mutare.

Don Maurizio Patriciello, parroco a Caivano, in quella che viene chiamata «Terra dei Fuochi», epicentro della malavita organizzata campana, ha ricordato che «se non ci mettiamo nei panni degli altri, l’egoismo che è dentro di noi prende il sopravvento. Pensiamo a cosa significa per una mamma vedere scomparire tra le onde il figlio, inghiottito dal mare, io non riesco neanche a immaginare quel dolore. Posso pensare che il primo pensiero che le venga è di gettarsi dalla barca per annegare assieme a lui».

«Il Papa insiste – ha evidenziato il sacerdote – che dobbiamo aprire il cuore ai migranti, ma anche tanti cattolici non comprendono. Se però chiudiamo il cuore possiamo pure sigillare le nostre chiese e mettere un cartello con scritto “Chiuso”»

Domenica scorsa è stata celebrata la Giornata mondiale dei Poveri, istituita da Francesco quattro anni fa.

La pandemia, nonostante abbia colpito indifferentemente nazioni ricche e povere, ha reso ancora più evidenti le disparità tra i poveri, sempre più poveri, e i ricchi, pochi, e sempre più ricchi, con cospicui patrimoni in crescita.

Una diseguaglianza inaccettabile, come sottolinea continuamente il Papa.

Tra i poveri più poveri ci sono anche coloro che fuggono da guerre e violenze, non certo chi approda sulle coste italiane e poi crea problemi di ordine pubblico, come accade ad esempio a Monastir.

Tra i venti punti indicati dal Vaticano nel 2017 alle Nazioni Unite, sulla gestione dei migranti, uno riguarda l’istituzione di canali sicuri, legali e organizzati per migranti e rifugiati, al fine di proteggere le loro vite e viene suggerito ai governi di evitare espulsioni arbitrarie e di massa che non tengano conto delle situazioni personali.

Questo potrebbe essere un modo intelligente di gestire il fenomeno migratorio.

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