Speranza e pace per il martoriato popolo siriano. Da sette anni la Siria vive una guerra devastante. Nei giorni scorsi sulla rete e sui principali media internazionali è apparsa la foto di un bimbo dentro una valigia di pelle bordeaux, in viaggio per chissà dove.
Un’immagine certamente provocatoria ma che, a differenza di quella del piccolo Aylan il cui corpicino nel 2015 era stato immortalato su una spiaggia in Turchia, non ha suscitato grande scalpore o sentimenti di rabbia o di dolore.
Siamo assuefatti dalle immagini che arrivano come fossimo refrattari al dolore di quegli uomini, di quelle donne e soprattutto di quei bambini che da sette anni vivono un conflitto senza senso.
Lo racconta Francesco Aresu su questo numero, così come l’imminente Triduo Santo ci richiama, tra le altre cose, alla necessità di sostenere il prezioso lavoro portato avanti dai religiosi della Custodia di Terra Santa, per i quali il Venerdì santo è prevista la consueta colletta «Pro Terra Sancta».
L’immagine del bimbo dentro quella valigia, dice Oliviero Forti, responsabile Ufficio Immigrazione Caritas, all’agenzia Sir, è quella di tutti i bambini cresciuti in guerra. «Va dato merito – scrive Forti – a coloro che nel fare comunicazione sono ancora capaci di suscitare emozioni, facendoci riflettere sull’assurdità di quanto sta accadendo in Siria. Incredibilmente il volto di quel bimbo infonde grande tenerezza e una strana serenità nonostante, nella sua breve vita, abbia conosciuto nient’altro che la guerra. Forse per lui quel viaggio dentro una valigia di pelle bordeaux non è poi così stravagante. Fa parte di quell’assurda realtà che ai suoi occhi è la normalità. D’altronde, come lui, sono migliaia i bambini nati negli ultimi sette anni in Siria». «Sono i figli della guerra – continua – i piccoli siriani che non sanno quale sia il significato della parola normalità, le cui giornate vengono scandite dal sibilo delle pallottole e dal rombo degli aerei che bombardano quel poco che è rimasto delle città e dei loro villaggi».
Di questo, poco o nulla passa sui media, troppo impegnati a raccontare storie di ordinaria follia domestica (lo scorso 10 marzo all’ora di cena sono stati trasmessi ben 10 (dieci?) servizi di cronaca nera nel Tg della TV pubblica), e incapaci di mostrare al mondo l’orrore di un conflitto le cui vittime sono per la maggior parte civili. «Un recente report delle Nazioni Unite – scriveva domenica su “Avvenire” Luca Geronico – ha mappato più di 4mila villaggi e quartieri in tutta la Siria, ma anche in Giordania e Turchia per registrare i fenomeni più gravi. Nelle aree in cui si registra una riduzione delle ostilità – afferma il rapporto Onu – i civili soffrono gli effetti di sette anni di conflitto: disintegrazione delle strutture sociali, delle reti di protezione e del rispetto delle regole e della legge, prolificazione di armi, continuo deterioramento delle risorse e alto livello di traumi e stress psicologici».
Una luce che dona speranza arriva dal progetto «Ospedali aperti in Siria», voluto dal cardinale Mario Zenari, nunzio a Damasco, cofinanziato dalla Cei con oltre un milione di euro provenienti dall’8×1000 e gestito dalla organizzazione internazionale Avsi, impegnata a far fronte ad un’altra crisi, quella sanitaria, che in Siria miete più vittime delle bombe.
Una piccola goccia nel mare dei bisogni di un popolo allo stremo, che vorrebbe evitare di dover fare le valigie e lasciare le proprie case.
Roberto Comparetti
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