L’incarico a Draghi mostra i limiti della politica italiana
«Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica».
Le parole con le quali il presidente Mattarella, dopo l’esito negativo del mandato esplorativo conferito a Roberto Fico, ha indicato a tutti gli schieramenti politici la strada di un governo di unità nazionale non devono cadere nel vuoto.
Si tratta di una sconfitta inequivocabile della politica, incapace di superare interessi di parte e polemiche strumentali per affrontare con responsabilità le sfide del bene comune.
Nulla è mancato nelle cronache recenti: le vendette personali spacciate per questioni di principio, l’attaccamento fine a sé stesso al potere, il vizio insuperabile di dire e fare tutto e il contrario di tutto, solo per avere un punto in più di apprezzamento negli effimeri sondaggi giornalieri, l’incompetenza conclamata nelle questioni di governo derubricata a qualcosa di accettabile, e tanto altro.
Questo «spettacolo», purtroppo non nuovo, è avvilente e lo diventa ancora di più pensando al contesto nel quale viene messo in scena, quello della pandemia, segnata dalle tre emergenze ricordate da Mattarella: sanitaria, economica e sociale.
La scelta di Mario Draghi per la guida del governo rappresenta la constatazione dell’incapacità della politica di trovare accordi nell’interesse generale, con il risultato di essere costretta, ancora una volta, ad affidarsi ad una figura terza, di riconosciuta autorevolezza, ma estranea alle forze parlamentari.
Al tempo stesso si tratta di una possibilità di riscatto, forse l’unica in questo momento.
La «via stretta» per riscattarsi passa infatti, nell’attuale fase della vita pubblica, per un’assunzione condivisa di responsabilità, segnata dalla ricerca sincera del bene comune.
È la lezione offerta da papa Francesco in «Fratelli tutti», dove indica la via della «migliore politica», che «è una vocazione altissima, una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune» (n. 180).
Nell’attività politica «bisogna ricordare che al di là di qualsiasi apparenza, ciascuno è immensamente sacro e merita […] la nostra dedizione. […] Pensando al futuro […] le domande […] saranno: “Quanto amore ho messo nel mio lavoro? Che impronta ho lasciato nella vita della società?”» (nn. 195; 197).
Il poeta inglese John Donne scrisse: «Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. […] Non chiedere mai per chi suona la campana: essa suona per te».
Oggi le «campane» suonano un grido d’aiuto che esige risposte concrete e urgenti.
Ci sono le «campane» dell’emergenza della pandemia, della complessa campagna vaccinale, della crisi del mondo dell’economia e del lavoro, dell’occasione dei fondi europei del Next Generation Eu.
C’è il suono delle «campane» che proviene dalle sofferenze della società, in particolare dai più giovani.
È proprio «l’investimento nei giovani» la realtà «dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata», come ha affermato Draghi all’ultimo Meeting di Rimini.
L’auspicio è che la classe politica metta da parte il «canto delle sirene» del consenso artificiale, per lasciarsi conquistare dal «suono delle campane», dato dalla vita delle persone.
È una chiamata a servire, l’unica che conta davvero.
Don Roberto Piredda
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