Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Commento a cura di Piergiacomo Zanetti
C’è sempre un tempo opportuno, un «kairòs», dove le cose si svelano per come sono. Un tempo non deciso da noi, dalla nostra volontà, ma un tempo che avviene di per sé, e il senso si manifesta. La coscienza si fa tale.
Gesù ha appena terminato la sua predicazione e si rende conto del fallimento di essa. Ecco il suo «kairòs».
Ma ancor più si rende conto che è il Padre a tenere nascoste queste cose a sapienti e a intelligenti, a coloro che sanno ma non vivono. Si rende conto del cammino della semplicità. E benedice.
Si guarda intorno e osserva l’agire della gente: assetata si era mossa per i deserti − rischiando anche la vita − per vedere sia il Battista, l’ultimo dei profeti, sia Gesù, il figlio di Dio, che mangiava e beveva coi peccatori. Era il tempo dell’innamoramento e dell’infatuazione, dove non si vedeva altro che l’oggetto o la cosa che si cercava, la persona che si desiderava. Si vedeva la fonte dell’acqua, e non la sete.
E quelle parole facevano loro bene, lenivano il cuore, anche se non ne coglievano il senso. Suonavano bene alle loro orecchie, riconciliavano, ma niente più.
Per loro Gesù aveva predicato, moltiplicato pani, guarito persone. Aveva parlato agli sfiduciati, sostenuto gli zoppi, aveva aperto alla comprensione le orecchie della gente. Chi era morto (dentro) era addirittura risuscitato. Ma poi? Terminato lo star bene che la presenza della sua persona provocava, tutto era finito.
E ora − si rende conto Gesù − nessuno confessa nella semplicità della vita e con le parole che c’è un Dio, Signore del cielo e della terra. Nessuno lo vede. Frustrazione massima, assoluta.
Qualche versetto precedente, le parole di «guai» e di giudizio gli erano fluite dalla bocca, perché vedeva già la morte in loro e la vita rifiutata. E l’aveva denunciata.
Ma qui va oltre. Riconosce il Padre e il suo agire. Vede la realtà, e osservandola ci educa lo sguardo: chi è oppresso, non trova via di uscita, chi porta carichi, non sa come liberarsene. E allora grida: venite a me!
L’antico adagio sperimentato da Mosè all’Oreb e dal popolo ebraico nel deserto si ripete: sarebbe un inganno pensare che la libertà sia una vita senza pesi! In ogni caso, tutti gli uomini devono portarli. Anche il peso e il giogo della libertà.
E denuncia che l’uomo o vive per il denaro, il potere e la fama (tutti questi sono idoli, oppressione per sé e per altri) o vive per Dio che è pienezza e gusto della vita. Dunque o si porta Dio ai fratelli oppure si porta oppressione. Per sé e per altri. A lui la scelta.
Il giogo di Dio e dell’esistenza è utile e buono, rivelativo e incarnante. Liberante. Sperimentarlo dona pace e stabilità, forza nei piccoli passi possibili, radicamento sincero, condivisione con gli altri. Il resto è essere in preda alle emozioni, alle vendette e all’egoismo. Alla piccolezza.
I comandamenti sono quel contenimento: un giogo che in quanto tale è sempre un peso, ma che alla fine risulta dolce e leggero, rispettoso e liberante. Vivendoli si scopre che tutto questo peso (ci) fa bene perché ci apre all’esistenza e l’esistenza a noi.
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