Eccoci al 2 febbraio, a riflettere su una realtà oramai scontata. Come chiamarla: vita religiosa? Vita consacrata? «Via perfectionis»? Forse «vita dedicata», con un nome che è abbastanza indicativo. Ci chiediamo: per cosa si qualifica la nostra vita? Non per un «dire» o per un «fare»: non siamo deputati a un particolare annuncio o testimonianza. Tutti i battezzati sono chiamati a questo. Cosa ci distingue da loro? La risposta di chi abbraccia questa vita è un po’ incosciente, soprattutto all’inizio. Eppure, per rispondere, si lascia qualcosa o qualcuno: una famiglia, amicizie, un lavoro. Spesso, anche una storia, anche se la storia si porta dentro.
Noi, come le altre, siamo persone a tutto tondo, ma fragili, che si portano dentro tutta la loro umanità. Un’umanità intera, non a metà.
Una volta mi è stato fatto osservare: noi, cristiani, che non siamo «consacrati» (nel senso di «dedicati») sappiamo che ogni vita è una vita «dedicata». La vostra «consacrazione» nasce da precedenti «dedicazioni». È vero, la nostra scelta si basa su una Parola, passa per la mediazione di qualcuno, si appoggia ad altre vite che vengono prima di noi, e soprattutto avviene dentro una comunità. Si dice ancora che la «comunità» è la caratteristica della nostra vita. Forse dovremmo accorgerci che prima delle strutture comunitarie, viene la «comunione» e vengono le «persone». Quindi una comunione di persone dedicate, che prima di sentirsi «di più», prima di sentirsi investite di una testimonianza da dare o di un annuncio da fare, si sentono amate e vedono la loro vita come lo spazio in cui vogliono vivere l’espressione di tale amore che si fa concreto per i fratelli. La risposta della vita dedicata è allora un amore dedicato, non ad altre persone ma a Dio. Dio basta? No, Dio non basta: basterà un domani, nei «tempi ultimi» di cui si dice che siamo profezia, ed è vero. Noi abbiamo fin d’ora questo anticipo e la rinuncia non è il cuore della nostra vita, come si è sempre detto. La rinuncia è una conseguenza, non la causa. La causa, il motivo trainante della nostra vita, è aver sperimentato di non poter vivere in altro modo, pur avendo la propensione e la struttura fisica per vivere gli altri amori. Noi siamo insieme come tutti e diversi da tutti: abbiamo le nostre ferite e finché non partiamo da queste, non potremo mai condividere la vita degli altri. Abbiamo rinunciato a essere modelli e punti di riferimento. Abbiamo rinunciato a insegnare qualcosa. Come tutti, anche noi abbiamo bisogno di essere guardati con sguardo amorevole, di essere compresi, consolati, perdonati. Il nostro posto è dentro il popolo di Dio, come tutti i battezzati: segno non di perfezione, ma di una umanità amata e privilegiata al punto da passare per vie inconsuete e desuete, come la verginità di chi si sente madre, o la vita affollata di chi non ha una famiglia propria, ma la comunità di sorelle o fratelli.
Ecco chi siamo, dove ci si può trovare. E quando anche noi entriamo nel grande gioco della vita, e arriva il tempo in cui non si può «fare» più niente, capiamo veramente qual è il nostro «di più»: come i leviti del Primo Testamento, non abbiamo altra eredità che il Signore. Ma anche questo forse è vero di tutti, è vero per tutti. Forse sarà questa la nostra peculiarità: scoprire che il nostro essere è nel non essere diversi dagli altri. E giocarsi la vita su questa sfida.
Suor Rita Lai – Ancella della Sacra Famiglia
© Copyright Il Portico