Amerai il Signore Dio e il prossimo tuo come te stesso XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».

Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

(Mt 22,34-40)

Commento a cura di Rita Lai

Il Vangelo odierno ci presenta il grande comandamento della Torà, che diviene nelle parole di Gesù un comandamento a due facce, per dir così, l’una inseparabile dall’altra: esso arriva dopo che la lettura continua del Vangelo di Matteo di queste domeniche, oggi comporta un taglio, ossia viene omesso il brano dell’interrogazione da parte dei sadducei sulla resurrezione dai morti.

Qui Gesù proclama la verità che Dio è il Dio dei vivi e non dei morti (cf. Mt 22, 32) e nel versetto seguente l’evangelista commenta che la folla è sbalordita per la sua dottrina.

La reazione dei farisei è quindi la conseguenza della presa di posizione di Gesù dinanzi ai sadducei: i farisei vanno al cuore della Torà.

Chi interroga il Maestro è un dottore della Legge.

Ma la domanda anche qui è una vera e propria tentazione: ciò che la muove è la stessa malizia della domanda sul tributo a Cesare (Mt 22, 15-21).

L’orizzonte è il solito: non c’è un desiderio di ricerca, e neppure quello di comprendere le parole di questo rabbino che parla di un Dio delle persone, non dei morti, ma dei vivi, dei Padri di Israele.

Il fatto singolare è che a porgli la domanda tendenziosa sia un dottore della Legge, uno che ha familiarità con la Parola: egli sapeva che cosa Gesù intendesse. Ma la differenza è data proprio dall’angolo visuale con cui si guarda la Parola di Dio. 

Quale allora il cuore della Torà, il centro propulsivo da cui tutto parte, da cui dipende tutta la Scrittura?

Gesù riporta al centro della questione con due espressioni: Amore a Dio e Amore al prossimo. Sembra semplicissimo, non lo è.

L’amore cui fa cenno è l’amore agapico, l’amore che sa donarsi totalmente, quello che Dio conosce bene e l’uomo molto meno.

Un dono che coinvolge tutto l’uomo, nessuna dimensione esclusa: tutto il cuore, tutta la dimensione interiore, tutta l’intelligenza. Ogni più piccolo spazio della persona umana viene “invaso” da questa appartenenza, da questa dimensione che attira senza ferire o umiliare, ma esaltando le risorse dell’umanità.

L’amore, dunque, questa categoria usata e abusata, eppure sempre troppo assente fra gli uomini, come ci ricorda Papa Francesco nella recentissima enciclica Fratelli tutti.

Qual è il segreto per riuscire in questa impresa? Occorre intanto declinare il grande comandamento di Gesù nella sua duplice dimensione: non esiste amore per Dio che non si inveri in quello per i fratelli e viceversa.

Questa è una grande sapienza che permette di tenere sempre la bussola, senza cadere né in uno spiritualismo sempre in agguato né in un materialismo che poco ha a che fare col messaggio cristiano.

Sapersi muovere in una dimensione che è da una parte una dichiarazione incondizionata per Dio e dall’altra la certezza della accoglienza e della gratuità verso ogni uomo, senza distinzioni. Normalmente alla fine di vangeli come questo si dice: «Troppo difficile! Non ce la farò mai».

Non è un optional, ma un comandamento.

Ci dev’essere nel cuore fallace dell’uomo un angolino in cui questa «utopia» si può realizzare. Probabilmente nel momento in cui il «comandamento» diviene una scelta di vita libera e seriamente sperata, il miracolo avviene.

Crediamoci.        

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