Una lettura dal punto di vista storico dello scontro in atto
«La prima vittima della guerra è la verità».
È questa una frase che ricorre spesso quando si verifica un conflitto, e sebbene sia alquanto difficile attribuirne la paternità, appare tuttavia emblematico che tutti concordino con essa.
L’aggressione della Federazione russa all’Ucraina ne è tragicamente l’emblema: il sistematico ricorso a versioni ufficiali, diametralmente opposte alle altre, ci fa apparire la verità come sfuggente
Essa è fieramente sbandierata dai fronti opposti che fanno della retorica di guerra il loro alfiere.
Distorsioni e falsità sono oggi all’ordine del giorno, in un mondo dell’informazione sempre più sovraccaricato da notizie provenienti da una vastità di fonti, costantemente alimentate e diffuse dai social media.
In una realtà così sfaccettata sono molti i lettori disorientati che cercano, spesso invano, di recuperare il bandolo di una così intricata matassa.
Se appare disperatamente complesso prevedere l’evoluzione dell’attuale conflitto in Ucraina – uno Stato che sta eroicamente resistendo all’invasione russa, sebbene stia pagando un prezzo crescentemente elevato in termine di perdite di vite umane e distruzioni materiali, che ogni giorno alimentano una crisi migratoria dai caratteri sempre più drammatici – il ricorso alla Storia ci permette di osservare lo scorrere dei recenti eventi da una posizione meno incline a semplificazioni e mistificazioni.
Partendo da una constatazione semplice, ma doverosa, che aiuta a liberare il campo dal primo equivoco: se la Russia di Putin aveva valide ragioni circa l’atteggiamento degli Stati Uniti, apparso risoluto nel voler ridefinire l’equilibrio mondiale, con la violazione della sovranità ucraina è passato inesorabilmente dalla parte del torto, dato che la definizione della ragione è data dal modo in cui si reagisce a quello che si ritiene un torto subito.
È indubbio che la guerra in corso sia frutto di errori commessi da più parti: da una parte l’Occidente, con chiare colpe nella gestione della dissoluzione dell’impero sovietico – Reagan aveva stipulato un tacito patto con Gorbaciov che stabiliva che nessun Paese oltre-cortina sarebbe mai entrato nella Nato o nell’Unione Europea – dall’altra lo “zar” Putin, incontrastato dominus da oltre vent’anni, che ha fatto della salvaguardia del mondo russo un’assoluta priorità da difendere anche con la forza, come aveva già dimostrato nel 2014 con la crisi del Donbass.
È noto infatti da tempo il senso di umiliazione generato nella dirigenza russa dal crollo dell’Urss, che ha spinto verso una re-imperializzazione sovietica; promossa debolmente da Eltsin, essa ha trovato in Putin un sostenitore convinto: grazie a una politica caratterizzata da toni nazionalistici e populistici il progetto di riportare la Russia alla precedente grandezza è andato consolidandosi.
Se agli occhi dell’Europa sorprende la fiera resistenza ucraina, alimentata dal coraggio e dalla disperazione, pressoché nullo sarebbe dovuto essere lo stupore verso il violento attacco della Russia, giacché sin dal suo insediamento al Cremlino (2000), Putin ha alimentato una propaganda nazionalista e poi rivendicativa verso alcuni territori ex-sovietici, consapevole dell’importanza della politica estera come strumento di consenso interno. In questo contesto si inseriscono le leggi sul crimine di riabilitazione del nazismo: è noto come Putin abbia giustificato la guerra come un processo di denazificazione dell’Ucraina, sebbene la matrice fascista sia in realtà non rappresentativa del paese.
Le pacifiche manifestazioni di piazza del novembre del 2013 contro i tentativi dell’allora presidente Janukovyč di instaurare relazioni politico-economiche preferenziali con la Russia invece che con l’Unione Europea, come si era sperato, vennero represse violentemente dalla polizia scatenando una protesta popolare sfociata nella rivoluzione del 2014 e nell’impeachment del presidente, riparato in Russia.
Se indubbia è la partecipazione alle proteste di forze dell’estrema destra nazionalista ucraina (Pravyj Sektor), è altrettanto vero che nelle successive elezioni esse ottennero meno del 2% e furono pertanto incapaci di influenzare le scelte politiche del nuovo presidente Porošenko.
Luca Lecis – Professore associato di Storia contemporanea
Università di Cagliari
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