Domenica e lunedì siamo chiamati alle urne per il referendum confermativo sulla modifica costituzionale, che prevede la riduzione di un terzo del numero di parlamentari.
Le ragioni dei due schieramenti le troverete all’interno del giornale, con due docenti di Diritto costituzionale che indicano le posizioni.
Il referendum rappresenta un prezioso strumento democratico, troppo spesso snobbato da noi italiani: frequentiamo maggiormente le urne in occasione delle elezioni meno nelle consultazioni referendarie.
Come italiani dovremmo essere più ottimisti sulla vita democratica nel nostro Paese.
È sufficiente mettere il naso al di là delle Alpi o sulle coste del Mediterraneo per capire l’aria che tira.
In tanti, troppi, Paesi le libertà democratiche sono in bilico.
La lista delle situazioni di tensioni è tale che si fa fatica a farla.
Anche nella civilissima Europa le cose non vanno molto bene, ad esempio in Bielorussia.
Da un mese l’ex-repubblica sovietica è teatro di violenze, con migliaia di persone in piazza che protestano contro il presidente Aleksandr Lukashenko, da 26 anni al potere con metodi non democratici, a detta di tanti suoi concittadini.
Nel 2004 un referendum ha di fatto cancellato il limite di due mandati per la carica di capo di Stato, aprendo le porte alla presidenza a vita.
Stessa situazione in altre parti del Vecchio Continente, come in Russia, dove Vladimir Putin ha di recente vinto il referendum costituzionale, grazie al quale ha ottenuto l’azzeramento dei mandati presidenziali, con la possibilità per l’attuale capo di Stato russo di ricandidarsi per altre due tornate elettorali, restando potenzialmente in carica fino al 2036.
Dalla Russia alla Cina la musica non cambia: anche nel grande Paese asiatico è stata varata la riforma della Costituzione che toglie il limite dei due mandati presidenziali, spianando così la strada a Xi Jinping per restare al potere oltre il 2023.
Ritornando nel Mediterraneo in Turchia Recep Tayyip Erdoğan è al vertice da circa 17 anni: l’attuale presidente turco ha vinto dal 2002 a oggi ben 11 elezioni – tra amministrative, nazionali e presidenziali – e due referendum in un contesto che, nonostante le critiche legittime e fondate, sembra formalmente democratico, anche se le notizie di cronaca registrano altro.
Non ultima la situazione in Libano, dove le tensioni si sono acuite dopo l’esplosione dello scorso 4 agosto, che ha portato morte e distruzione.
Il Papa ha chiesto una Giornata di preghiera e digiuno realizzata lo scorso 4 settembre, segno che Francesco ha a cuore il modello libanese, quale esempio di pacifica convivenza tra persone di credo e sensibilità differenti.
Secondo molti osservatori la crisi delle democrazie rappresentative nasce da una chiusura dei rappresentanti del popolo, sempre più impegnati negli affari e nelle beghe di Palazzo, distanti dai cittadini che dovrebbero, invece, non solo rappresentare, ma anche coinvolgere e ascoltare. In parte è così, anche se è altrettanto certo che la «Libertà è partecipazione», come cantava Giorgio Gaber.
La strada la indica il magistero della Chiesa: i cittadini partecipano alla vita pubblica, evitano deleghe in bianco e incalzano i rappresentanti eletti con quello strumento chiamato «Patto Politico Eletto-Elettore», che impegna chi è eletto a dar conto del proprio operato all’elettore.
Solo così sarà possibile recuperare quella dinamica partecipativa, unica cura per la democrazia rappresentativa in crisi, ed evitare così possibili derive autoritarie.
Roberto Comparetti
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