Il conflitto tra Israele e Palestina richiede un ulteriore sforzo nel riprendere il dialogo
Non è semplice cercare di dire qualcosa sui fatti di Terra Santa, perché nell’epoca delle polarizzazioni e della mancanza di mediazione si rischia di generare ulteriori conflitti.
Ciò che accade a due ore di aereo dalla nostra Isola non può lasciarci indifferenti, perché i fatti che emergono di ora in ora mostrano quanto sia necessario continuare incessantemente a pregare, come accaduto martedì 17 nella Giornata di preghiera e digiuno, indetta dalla Chiesa italiana, in comunione con il Patriarcato di Gerusalemme.
Da decenni quella lingua di terra nel Mediterraneo orientale è fonte di tensione e non c’è giorno che passi nel quale non si registrino episodi di violenza.
Eppure 30 anni fa ad Oslo, sotto gli occhi dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, la stretta di mano tra Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Yitzhak Rabin, Primo Ministro israeliano laburista, pareva aver posto le basi di un processo di pace, con un accordo tra le due parti.
Invece quei due protagonisti uscirono ben presto di scena, in particolare Rabin, ucciso due anni dopo, mentre Arafat iniziò a vedere insidiata la propria leadership all’interno del mondo palestinese.
In sostanza gli estremismi di entrambe le parti fecero naufragare quell’accordo di pace, insieme alla volontà di trovare una convivenza pacifica tra i due popoli, ciascuno con un proprio stato e una capitale unica, Gerusalemme.
Di quel sogno oggi non resta nulla, anzi le posizioni e le azioni si sono fatte sempre più estremiste e violente, come mostrano le vicende di queste ore.
Per cui, come hanno ricordato il Santo Padre e il cardinale Parolin, è necessario lavorare con convinzione a una pace «costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio della fraternità».
Francesco, domenica scorsa all’Angelus, ha implorato la cessazione del conflitto.
«Continuo a seguire con lacrime e apprensione – ha detto – quanto sta succedendo in Israele e Palestina: tante persone uccise, altre ferite. Prego per quelle famiglie che hanno visto trasformare un giorno di festa in un giorno di lutto e chiedo che gli ostaggi vengano subito rilasciati».
«È diritto di chi è attaccato difendersi – ha proseguito – ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti».
«Il terrorismo e gli estremismi non aiutano a raggiungere una soluzione al conflitto tra Israeliani e Palestinesi, ma alimentano l’odio, la violenza, la vendetta, e fanno solo soffrire gli uni e gli altri».
«Il Medio Oriente non ha bisogno di guerra – ha evidenziato il Papa – ma di pace, di una pace costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio della fraternità».
Anche il Cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, in una intervista ai media vaticani, ha ricordato che «è necessario recuperare il senso della ragione, abbandonare la logica cieca dell’odio e rifiutare la violenza come soluzione».
Di fronte però ai muri delle due parti, l’incessante appello e la preghiera per la pace, insieme al lavoro della diplomazia, possono aiutare a disinnescare la spirale di violenza che alimenta non solo la guerra israelo-palestinese ma anche gli altri conflitti che insanguinano troppe parti del mondo.
Giovanni Paolo II nel 1991, quando iniziò la prima guerra del Golfo, ammonì: «La guerra è un’avventura senza ritorno».
A distanza di oltre 30 anni quelle parole, purtroppo, continuano ad essere attuali.
Roberto Comparetti
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