Guardare al mondo delle carceri con un occhio diverso. Il lavoro nel penitenziario di Uta
Se la sistemazione è solo provvisoria.
L’articolo 27 della Costituzione sancisce che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Da tempo però questi due elementi del testo costituzionale sono in buona parte disattesi.
In particolare la prima parte dell’enunciato è palesemente ignorato perché, troppo spesso, l’apertura di un fascicolo di indagine da parte della magistratura, viene letta da tanti come una condanna già scritta.
In realtà il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio affinché la condanna sia definitiva.
La seconda parte dell’articolo è quella che stenta ad essere applicata: i penitenziari non sempre sono ospitati in strutture idonee, molte volte sono sovraffollati e in pochi i casi il tempo detentivo si trasforma in un periodo rieducativo.
In questo contesto diventa difficile, per coloro che hanno commesso reati, provare ad invertire la rotta.
Quando ciò accade non sempre la notizia riceve la stessa attenzione per fatti di cronaca nera che hanno come teatro le mura di una casa circondariale.
San Giovanni XXIII nel 1963 scrive l’enciclica «Pacem in Terris» e in uno dei passaggi ricorda come «l’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva in ogni caso la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità».
Proprio questo punto è quello che più di altri fatica ad essere compreso: troppo spesso si identifica la colpa con il colpevole, il quale certamente dovrà scontare la pena per l’errore ma al quale va sempre data l’opportunità di riscatto.
Nel novembre 2011 Benedetto XVI pubblicava l’esortazione apostolica dopo il Sinodo sull’Africa.
In quel documento al numero 83 si legge: «Occorre bandire i casi di errori della giustizia e i trattamenti cattivi dei prigionieri, le numerose occasioni di non applicazione della legge che corrispondono ad una violazione dei diritti umani e le incarcerazioni che non sfociano se non tardivamente o mai in un processo».
«La Chiesa riconosce la propria missione profetica di fronte a coloro che sono colpiti dalla criminalità e il loro bisogno di riconciliazione, di giustizia e di pace. I carcerati sono persone umane che meritano, nonostante il loro crimine, di essere trattati con rispetto e dignità. Hanno bisogno della nostra sollecitudine».
A Cagliari l’impegno della Chiesa si sta palesando in tutta la sua forza, con le numerose iniziative portate avanti dalla cappellania, intorno alla quale ruotano decine di volontari laici e consacrati, che assicurano vicinanza e ascolto e portano avanti le attività di animazione.
Lunedì scorso, alla presenza dell’Arcivescovo, dei giudici di sorveglianza e della direzione, è andato in scena un momento di festa, con musica e testimonianze, in grado di raccontare da un’altra prospettiva la vita della Casa circondariale di Uta.
Storie di riscatto, di perdono, di conversione, di cambiamento di vita: occhi lucidi e emozione, la gioia del canto e della musica, che diventano occasione di riscatto per chi si è cimentato nella preparazione e nell’esibizione di fronte a parenti, volontari e agenti di polizia penitenziaria.
Una conferma che quella di Uta è solo una «sistemazione provvisoria».
Roberto Comparetti
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