Dove sta l’anima della scuola?

«Quando si hanno di fronte per parecchie ore al giorno venticinque volti di ragazzi dai quindici ai diciotto anni, che si vendicano spietatamente se si è noiosi nelle lezioni, ma che vi fissano con i loro occhi di chiarezza ─ talvolta di tenerezza ─ quando nel silenzio profondo di un’ora mattinale un riflesso del bello e del vero li illumina, è impossibile non porsi e riporsi senza posa le questioni eterne che sono tutta la vita d’un uomo; ed è impossibile non rispondervi, perché la gioventù è impaziente. I libri allora non bastano più. La risposta deve essere data immediatamente, e deve essere vera, cioè totale, perché nessuno può ingannare la giovinezza. Bisogna allora chiudere i libri, senza dimenticarli, bisogna guardare in faccia questi giovani, bisogna soprattutto interrogare se stessi e rispondere alle questioni sparse nei testi dei nostri autori» (Umanesimo e santità, 1950).

Tra pochi giorni inizia il nuovo anno scolastico e queste riflessioni di Charles Moeller possono essere di grande aiuto per cogliere ciò che è davvero essenziale.

In mezzo a una miriade di discussioni e questioni amministrative, che pure hanno il loro peso, dove sta l’anima della scuola? Proprio nelle parole di Moeller: le facce dei giovani.

Quelli scolastici sono sempre giorni intensi. Per un attimo si può provare ad andare oltre l’immediato, fissare le facce dei ragazzi, ascoltare le loro voci che apparentemente sembrano fare riferimento solo al «compito che speriamo vada bene» o all’interrogazione che «salva la vita». Non è difficile scorgere in loro, pur tra mille contraddizioni (e come potrebbe essere diversamente?), un grande desiderio di ascolto, di essere «chiamati» per nome, riconosciuti nella loro originalità unica e speciale. C’è come un silenzio che grida e pretende vita, bellezza, possibilità di un senso per il proprio cammino. Tutto questo fa pensare a quanto si offre ai ragazzi che si hanno davanti per tanti anni, per una marea di giorni. Il segreto è forse, tra le pieghe dei giorni fatti di spiegazioni, compiti, tensioni e risate, quello di cercare con ogni mezzo di partire dalla loro realtà, di amarli proprio per come sono, di servirli non dimenticando mai che l’educatore è sempre chiamato ad affermare la vita dell’altro, a dargli tempo e mezzi perché possa vivere al meglio la sua storia, unica e irripetibile.

Quando i più giovani incontrano persone capaci di prendere sul serio e con passione la loro ricerca e hanno davanti proposte all’altezza dei loro desideri, sono davvero in grado di dare il meglio, di fare delle meraviglie.

L’anno scolastico che inizia ha davanti la sfida che papa Francesco ha indicato ai ragazzi nella recente Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia: «Non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta» (Veglia, 30 luglio).

Quale sarà l’impronta di Elisabetta o di Marco? Quale sarà il loro «tesoro» da tirare fuori e far brillare? Ecco le domande che devono animare il lavoro, prezioso e non facile, degli insegnanti.

La scuola non serve solo per «costruire un futuro», è proprio una scommessa sul presente, un grande atto di fiducia nella possibilità di scoprire bellezza, verità, senso per la propria vita.

Qui e ora, senza rinvii, perché la domanda di vita dei ragazzi non può attendere.

Roberto Piredda

Direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale scolastica

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